Omelia nella Messa della Notte di Natale
Chiesa Cattedrale, Ugento, 24 dicembre 2024.

La liturgia di questa notte annuncia un evento umano e divino. Le tenebre, che per molti significano mancanza di speranza per il futuro e lo spegnersi di una prospettiva di pace, sono squarciate dalla luce proveniente dall’incarnazione di Cristo. 

            In questa omelia-meditazione mi soffermo su sei aspetti: la dimensione antropologica del Natale rivela il valore della vita e l’altissima dignità dell’uomo; la prospettiva storica indica un fatto realmente accaduto che manifesta Cristo come il senso, il centro e il fine della storia; il fondamento teologico esprime la verità dell’assunzione della carne da parte del Verbo e manifesta il frutto di questa unione: la rinascita della creazione e la salvezza dell’umanità; la realtà sacramentale proclama la presenza eucaristica di Cristo nel tempo; la visione mistica suggerisce la necessità di un incontro intimo e profondo con Cristo, luce, soffio, respiro e vita dell’anima; l’esercizio delle virtù teologali come via per il rinnovamento della società.

Il miracolo della nascita

Dio entra nella storia degli uomini allo stesso modo con il quale ogni uomo viene in questo mondo. La nascita di Cristo esalta il miracolo della nascita. «È nato!» è il grido di gioia che risuona a conclusione del parto. Una gioia liberatoria che trasforma il travaglio in un canto di gioia.  Qualcosa di miracoloso accade in ogni nascita. È la promessa di futuro per un mondo immerso nella brutalità della violenza e nell’ombra della morte[1].

La vita che nasce è uno dei grandi misteri dell’esistenza. Fin dal suo sorgere, si presenta fragile e bisognosa di protezione, eppure allo stesso tempo è fonte di benedizione e di gioia indicibili. Un misto di sentimenti – paure e speranze, ansie e attese – accompagna i genitori prima della nascita di un figlio. Dopo la sua venuta alla luce, cresce in loro una forza nuova e insospettata[2]

Non si tratta solo di un evento naturale che risponde alle leggi universali della vita. La nascita di un bambino è un avvenimento singolarissimo che rende la vita unica sin dal momento del suo primo respiro e manifesta che l’uomo è un mistero, non un problema[3]. L’esistenza, come la speranza, è un mistero che ci sopravanza, ma in cui siamo immersi. Il suo compimento non viene dalla semplice tensione della volontà, ma dalla disponibilità ad accogliere a vita come dono. La speranza «si presenta come risposta della creatura all’essere infinito al quale sa di dover tutto ciò che è e di non poter senza scandalo porre alcuna condizione. Dal momento in cui mi prostro, direi quasi, dinanzi al Tu assoluto che nella sua infinita condiscendenza m’ha tratto dal nulla, sembra che io mi vieti per sempre di disperare»[4].

La nascita, come la speranza, è la festa dell’inizio e del sempre nuovo inizio, in un cammino che va di inizio in inizio. Nella lingua ebraica la parola sheerìt, che significa “resto”, è composta dalle stesse lettere (reshìt) che significano “inizio”. Come ricorda Hannah Arendt, gli esseri umani non sono fatti per morire, ma per nascere. Con un riferimento a un passo di sant’Agostino[5], ella scrive: «L’uomo è stato creato affinché avesse inizio qualcosa in generale. Con l’uomo, è entrato nel mondo l’inizio. E su questo si fonda la sacralità della spontaneità umana. Lo sterminio totalitario dell’uomo in quanto uomo è lo sterminio della sua spontaneità. Ciò significa allo stesso tempo la revoca della creazione in quanto creazione, in quanto aver-istaurato-un-inizio»[6]. Anche l’aborto procurato è una decreazione, una negazione del sorgere dell’inizio.

Con il venire alla luce di un uomo rinasce ogni volta il mondo. Tutto resta come prima, ma nulla è più come prima. Un evento sempre uguale, accade sempre in modo nuovo; un fatto che ha caratteristiche comuni, ogni volta sorprende come fosse sempre originale. Si nasce unici e irripetibili. Un alone di mistero circonda la nascita di un bambino. D’altra parte, non si nasce solo una volta, ma molte volte nella vita. La nascita non è solo all’origine della nostra esistenza, ma ogni qualvolta, attraversato momenti di crisi, ne usciamo come rinati. Affrontare queste nuove nascite significa mantenersi interiormente vivi.

Ogni volta che qualcuno nasce alla vita è come se tutti fossero toccati dal suo venire alla luce. Ovunque accada, la nascita è sempre un evento gioioso, un incontro con un inatteso raggio di sole. Quando si accoglie il mistero della vita e si vive consegnandosi ad essa, la vita si riempie di gioia. Così la verità della vita si mostra al di là di ogni conoscenza erudita della verità. Non c’è verità alcuna senza una vita che nasce. Per nascere, è necessario dire “sì” e rinnovarlo ogni giorno. Così si mostra che non tutto è vano e inutile, che non tutto è morte e che la morte non è l’ultima parola sulla vita. 

La luce della nascita illumina l’ombra della morte 

La luce della nascita non può essere mai separata dal destino mortale che essa impone. Il confine tra la vita e la morte appare strettissimo. La vita emerge dal buio, dall’ombra del grembo materno. Viene al mondo solo attraverso il grido della sua assoluta fragilità. Inizia a morire con il primo respiro. «Proprio dal confronto con la morte, quando non sono più possibili evasioni e la cruda realtà non lascia alcuno scampo, c’è una facoltà nell’uomo che è ancora in grado di resistere: appunto la speranza fondamentale, che, se rivolta al compimento della persona e a valori trascendenti, non soggiace a delusioni»[7].

La morte e la vita sono come intrecciate al punto che anche la morte, nella prospettiva cristiana, si presenta come dies natalis, una nuova e ultima esperienza di nascita. Le madri sanno bene che il tempo dell’evento della nascita porta sempre con sé il pericolo per la loro vita. Niente è più vicino all’esperienza della morte come una sala parto. Sottilissimo è il confine tra la sala parto e la sala operatoria. Da una parte, c’è una lotta per venire alla vita; dall’altra, c’è una lotta per restare in vita. Se la vita si afferma con un grido di liberazione, la morte accade con l’esalazione dell’ultimo respiro. Per questo non c’è niente di più straziante di assistere a parto che non genera vita, ma malattia o morte. Niente è più doloroso di un miracolo che non si avvera. Per una madre è sempre un doppio e drammatico lutto: perdere il bambino e constatare che la propria capacità generativa non è giunta a buon fine. È un lutto senza parole e senza conforto che ribadisce il nesso stretto tra la vita e la morte. 

Festeggiare il Natale del Signore vuol dire riconoscere il miracolo della vita che non si arrende al potere della morte e celebra, in modo straordinario, la dimensione luminosa di ciò che resta, di ciò che non vuole morire, di ciò che vuole continuare a nascere. Proprio nell’esperienza del parto, la madre ha la sensazione che se, al colmo delle sue doglie, non spingesse il proprio figlio per farlo uscire dal suo corpo potrebbe rischiare di soffocarlo. L’ultima spinta è quella che, salvando il bambino dal rischio del soffocamento, lo apre alla vita, ma solo a condizione di perderlo, spingendolo fuori di sé e gettandolo nel mondo. È questo il dono più grande della maternità: lasciare che il bambino cresciuto nel proprio ventre si separi, esca fuori, divenga vita indipendente dalla madre. Un figlio non è una proprietà della madre. La madre ha il compito di generare e spingere il figlio fuori dal proprio corpo e lasciarlo andare per la sua strada. A lei, tocca custodire e osservare il segreto della vita del figlio, senza volersene impadronire. 

Se è vero che gli esseri umani sono fatti per nascere, cioè per “venire alla luce”, allora si deve quasi suppore che vi sia un patto, quasi un «vincolo nuziale tra l’uomo e la vita»[8]. La vita è «dono di Dio»[9] e questa verità mette in discussione ogni concezione dell’io chiuso in sé stesso. Allora si comprende che «il meglio di me non m’appartiene, io non ne sono affatto proprietario, ma soltanto depositario»[10] e donatario. Al fondo, si scopre di essere un «dono per essenza, ben lungi dal potere, in qualche modo, attribuire a sé quella caricatura di aseità»[11]

Nella nascita di ogni bambino, Gesù rinasce di nuovo. Ogni volta che la vita mostra la sua pesantezza, egli viene a visitarci e a prendere dimora in noi. In ogni creatura che nasce si rinnova l’esperienza del mistero in cui, fin dal l’origine, la vita è implicata. «La partecipazione al mistero è l’esistenza stessa in quanto donata e non data e che conduce a Dio e al sacro»[12]

La nascita di Gesù e le gioie genuinamente umane

La nascita di Gesù è un avvenimento storico. Dio non disdegna di presentarsi al mondo nella forma di un bambino, come aveva annunciato il profeta Isaia: «Un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato» (Is 9,5). Anche del Verbo eterno si dice «è nato»: alla lettera significa è stato partorito. Il verbo tìkto, nel Nuovo Testamento, viene detto esclusivamente della donna che partorisce, con tutto il suo carico di dolore, di paure e di speranze.

La luce stellare, che circonda il piccolo e inerme Gesù Bambino, si situa dentro le coordinate dello spazio e del tempo per esaltare la vittoria della vita sulla morte e segnare l’inizio di un nuovo cammino dell’umanità. La nascita di Gesù è una novità assoluta e segna uno spartiacque storico tra «prima di Cristo» e «dopo Cristo» e rivela la missione fondamentale di questo piccolo e disarmato re: liberare la vita dalla paura della morte, non attraverso l’illusione narcisistica della volontà di potenza, ma attraverso l’umiltà del figlio, nel suo abbandono alla volontà del Padre e al “sì” della madre, Maria.

 La nascita di Gesù è la festa di luce che vince sulle tenebre della distruzione[13]. Nasce in una notte che ha una valenza storica e politica perché un decreto imperiale impone un censimento a cui tutti devono sottomettersi. È una notte di sottomissione a ciò che è decretato dall’alto. Cesare Augusto, con i suoi titoli che lo divinizzano, vuole estendere il controllo su tutti e su ciascuno ordinando un censimento della terra abitata. Il censimento è quasi una sorta di usurpazione del posto di Dio, la pretesa dell’uomo che si erge a signore di altri uomini, l’espressione della volontà di controllo e di dominio. In tal modo, le persone sono mezzo per la propria soddisfazione o il proprio potere. Nel suo vangelo, invece, Luca afferma che proprio in quella notte Dio manifesta la sua signoria sulla storia attraverso l’evento della nascita di un bambino. Dio sceglie di mostrarsi nelle piccole cose, nei piccoli eventi che formano la trama del vivere giornaliero. 

Si scatena così una triplice forma di gioia, una gioia genuinamente umana che è come un preludio alla gioia celeste. Il lieto evento della nascita di Gesù Bambino avviene come annuncio di gioia ai poveri, a chi non conta nulla. Nella loro condizione periferica e marginale nella società del tempo, i pastori sono disponibili a ricevere l’incredibile annuncio e a lasciarsi rivestire da quel luminoso messaggio. La gioia nasce dall’esperienza della gratuità, della povertà, dell’umiltà. 

Nell’agire di Maria, contempliamo una seconda dimensione della gioia: il riscatto della maternità. In lei «Madre di tutti gli uomini la maternità, redenta dal peccato e dalla morte, si apre al dono della vita nuova»[14]. Di fronte al neonato, Maria, come una madre premurosa, compie i gesti materni di cura della vita. Il prefazio di Avvento esprime la sua dedizione con parole di grande dolcezza quando afferma che «lo attese e portò in grembo con ineffabile amore». Anche i gesti che seguono il parto e, tra questi, soprattutto l’“adagiare” e il “fasciare”, esprimono la sua maternità e sono simbolo della maternità di ogni donna. Dopo aver fasciato il piccolo Gesù, ella lo solleva davanti a sé per guardarlo e contemplarlo faccia a faccia, in una comunicazione personalissima e intensa, per poi coricarlo nuovamente nella mangiatoia. 

Questi gesti esaltano la gioia della madre che si fa carico e si prende cura di chi, nella sua debolezza, è totalmente affidato al suo amore appassionato. Emergere così il netto contrasto tra il modello della premurosa custodia di Maria e il modello del controllo e del dominio rappresentato dal censimento attuato dall’imperatore romano: modello di gioia e di vita l’uno, modello di morte e di tristezza l’altro. Nell’attenzione verso chi è il debole c’è l’incontro con Dio, nel dominio sull’uomo operato da chi si crede Dio, non solo non ci può essere incontro con Dio, ma c’è anche l’ingiustizia e la prevaricazione sull’uomo. La gioia dunque nasce dalla cura e dalla responsabilità verso il debole e si oppone al controllo e al dominio sull’altro.

Vi è una terza sfumatura della gioia: quella di Gesù Bambino. «Oggi è nato per voi» è il gioioso annuncio degli angeli. Per l’evangelista Luca l’inizio (Natale) e la fine (Pasqua) coincidono. Fin dalla nascita, e non solo sulla croce, Gesù si presenta come “l’uomo per gli altri”. Nel segno della dedizione e dello svuotamento di sé si fa dono per gli altri. Chi nasce per altri è libero da sé. La nascita di Cristo, colta come “evento per”, custodisce il segreto della gioia cristiana: vivere non per sé, ma per gli altri; spendersi gratuitamente, senza attendere contraccambi e riconoscimenti.

            La nascita di Cristo, Verbo incarnato

            Colui che nasce, però, non è solo un bambino come tutti gli altri, ma il Verbo Eterno. L’annuncio degli angeli proclama l’inaudita verità di quella nascita: «Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo, il Signore» (Lc 2,11). Nella nascita di Gesù, si realizza il miracolo dell’incarnazione: nel centro e nella pienezza del tempo, Dio si rende pienamente umano assumendo la figura di un bambino inerme.

Il celebre Prologo di Giovanni, contiene la formula più perfetta dell’Incarnazione: «il Verbo era Dio» (v. 1), «il Verbo si fa carne» (v. 14). Il testo adombra l’itinerario immenso compiuto dal Verbo: «il Verbo era presso Dio» (v. 1) «venne ad abitare in mezzo a noi» (v. 14) per svelare il destino degli uomini: «diventare figli di Dio»(v. 12). Mediante la fede e l’accoglimento della Parola, essi sono generati non «da volere di uomo» (v. 13), ma dall’amore del Padre. La formula «il Verbo si è fatto carne» (v. 14) è il centro dei simboli di fede e delle celebrazioni rituali. Ogni domenica nella sinassi eucaristica l’assemblea, alle parole «et incarnatus est», china il capo, e in certo modo ripete l’atteggiamento accogliente di Maria. 

Talvolta si traduce la frase evangelica in italiano: «Il Verbo si è fatto uomo». Più propriamente bisognerebbe tradurre “Il Verbo è fatto carne”, cioè la seconda persona della Trinità ha assunto la dimensione storica dell’uomo. Questa seconda espressione include anche la prima, ma è più densa di significato perché esplicita il fatto che il Verbo, non solo diventa uomo, ma vive tutte le fragilità umane, eccetto il peccato. Dio si fa carne, si inabissa nella storia degli uomini e accoglie sino in fondo la sfida della vita, della sua insicurezza, della sua fragilità. 

Il divino si fa altro da sé, si abbassa, si fa povero, si umilia. L’umiltà del cielo diventa stalla, la luce divina si fa fuoco di paglia, il trono di gloria si restringe nella mangiatoia, il canto degli angeli si confonde con il canto degli uomini, il calore dell’amore eterno si riscalda con il fiato degli animali. Accade lo sradicamento dalla sede celeste per abitare una vita che non ha casa, un’esistenza senza alloggio, un’abitazione senza residenza, un potere senza titoli di onore. 

In tal modo, si fa chiaro il messaggio cristiano: non si tratta di abbandonare o disprezzare questa vita per raggiungere un’altra vita, ma di rinascere in questa vita, nascere nuovamente e non smettere mai di nascere. Si tratta soprattutto di divenire qualcosa di più. «Il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio», afferma sant’Atanasio[15] e san Leone Magno, nelle sue celebri Omelie sul Natale, ritorna spesso su questo tema e, facendone oggetto di una profonda meditazione, sottolinea: «Se noi ci appelliamo all’inesprimibile condiscendenza della divina misericordia che ha indotto il creatore degli uomini a farsi uomo, essa ci eleverà alla natura di colui che noi adoriamo nella nostra»[16]

            La presenza eucaristica di Cristo nel tempo

Il mistero dell’incarnazione e della nascita di Cristo si rende presente nel mistero eucaristico e nella comunità ecclesiale. Lo aveva compreso bene san Francesco quando, per la prima volta, fece allestire il presepio a Greccio e fece celebrare «sulla mangiatoia il solenne rito della Messa»[17]. La mangiatoia divenne così l’altare per la celebrazione del mistero eucaristico. Così san Bonaventura descrive l’episodio: «Il santo sacrificio viene celebrato sopra la mangiatoia e Francesco, levita di Cristo, canta il santo Vangelo. Predica al popolo e parla della nascita del re povero e, nel nominarlo, lo chiama con tenerezza d’amore, “bimbo di Betlem”»[18]

L’episodio narrato dalle fonti francescane sottintende una riflessione teologica che si è sviluppata nel tempo riguardante il rapporto tra Maria, la Chiesa e l’Eucaristia. Cristo, figlio di Maria, è realmente presente nel suo corpo mistico (la Chiesa) e nel suo corpo sacramentale (l’Eucaristia). Vi è una relazione tra il corpo vero o storico di Gesù nato da Maria, il corpo sacramentale dell’Eucaristia e il corpo ecclesiale. La Chiesa, infatti, è corpo mistico di Cristo[19].

            Si comprende così l’unione inscindibile, pur nella differenza, tra incarnazione e mistero eucaristico. «Ave verum Corpus natum de Maria Virgine»,canta il celebre inno eucaristico che ci ricorda il legame tra il Figlio e la Madre. Il sottofondo di questa antifona è l’identità fondamentale tra il corpo eucaristico del Signore e quello che ha abitato il grembo di Maria: «L’eucaristia, – scrive san Giovanni Paolo II – mentre rinvia alla passione e alla risurrezione, si pone al tempo stesso in continuità con l’incarnazione»[20].

L’antifona traduce in preghiera un dato storico innegabile: l’origine del corpo di Cristo dalla Vergine sua madre. Gesù resta sempre il Figlio di Maria. Ella lo ha generato per opera dello Spirito Santo, ma rimane un punto di riferimento imprescindibile per evidenziare il realismo dell’incarnazione. Nell’Eucaristia non si ha dunque un corpo irreale né un corpo diverso da quello partorito a Betlemme, ma il vero e medesimo corpo nato dalla Vergine, trasfigurato dalla morte e dalla risurrezione e vivente per sempre nella gloria del Padre.

Il “sì” di Maria garantisce che la fede cristiana non è vuoto spiritualismo. In lei, nasce il corpo di colui che è il nostro Pane di vita. Fin dall’annunciazione e dalla visitazione, Maria fu il “tabernacolo” vivente dell’Eucaristia. «Il primo “tabernacolo” della storia, dove il Figlio di Dio, ancora invisibile agli occhi degli uomini, si concede all’adorazione di Elisabetta, quasi “irradiando” la sua luce attraverso gli occhi e la voce di Maria»[21].

L’evangelista Giovanni nel suo racconto ha unito la rivelazione del mistero eucaristico e l’evocazione dell’Incarnazione: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14) è il «pane vivo sceso dal cielo per la vita del mondo» (Gv6,51). 

            Sono molteplici le presenze di Cristo nella liturgia [22]. Cristo è presente nell’assemblea orante, secondo la sua promessa: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). È presente nella parola, perché è lui a parlare nella Scrittura. È presente nel ministro, poiché offre sé stesso mediante il ministero dei sacerdoti. Soprattutto è presente nell’eucaristia, in modo reale e personale come uomo-Dio. Queste molteplici presenze di Cristo sono effettive e importanti, ma la presenza nell’Eucaristia le sorpassa tutte. In essa la presenza di Cristo è «vere, realiter et substantialiter»[23].

 Questa presenza è reale non perché le altre siano irreali, ma perché lo è per eccellenza[24]. La costituzione sulla liturgia afferma che Cristo è presente «soprattutto [maxime] nelle specie eucaristiche»[25]. Il modo di presenza nell’Eucaristia è «il più piacevole per quanto riguarda la devozione, il più nobile per quanto riguarda la comprensione, il più santo per ciò che contiene, visto che contiene Cristo stesso ed è come se fosse la perfezione della vita spirituale e lo scopo di tutti i sacramenti»[26].

La nascita mistica di Cristo nell’anima del credente 

L’evento storico della nascita di Cristo e la sua celebrazione rituale diventa realtà salvifica quando si esprime come evento mistico. Ciò significa che il Cristo deve nascere per opera della fede nell’anima dell’uomo come principio di luce e di amore divino. «Se mille volte Cristo nascesse a Betlemme, ma non in te – scriveva il poeta slesiano Angelus Silesius – perennemente saresti perduto»[27]. La stanza in cui siamo invitati ad entrare è la grotta del cuore, la stanza più segreta e intima del nostro essere, il luogo del raccoglimento, in cui possiamo sentire la voce dello Spirito. La stanza nuziale, direbbe santa Teresa d’Avila, sta al centro del nostro “Castello interiore”, in cui torniamo ad essere un tutt’uno con il divino. 

Accanto al Natale storico, nel quale una sola volta, in un solo luogo e in una sola persona, il divino è nato sulla terra, c’è dunque un Natale eterno, per cui, secondo le parole di Origene, il divino si genera nell’anima non una volta soltanto, ma in ogni istante, in ogni luogo e in ogni uomo, in ogni pensiero che egli rivolge a Dio con purezza, in ogni gesto di amore che compie.

Anche per questo la nascita di Gesù è un evento reale e non un mito, in quanto ha a che fare con realtà profonde ed universali dell’anima umana. Il mito riguarda ciò che non è mai avvenuto ma in eterno avviene, mentre per il Natale è ciò che è avvenuto una volta e avviene in eterno. In altri termini, il Natale non è solo un mistero che riguarda la storia passata, ma accade ogni giorno nell’anima del credente. In una poesia del 25 dicembre 1955, riprendendo il detto di Angelo Silesio, Giovanni Papini scriveva: «Anche se Cristo nascesse mille / e diecimila volte a Betlemme, / a nulla ti gioverà / se non nasce almeno una volta nel tuo cuore. / Ma come potrà accadere / questa nascita interiore. Eppure questo miracolo nuovo / non è impossibile / purché sia desiderato e aspettato».

            La nascita di Cristo, le virtù teologali e il rinnovamento sociale 

            La nascita di Gesù avviene non solo nell’anima, ma anche nella società umana e nella comunità degli uomini. Attraverso l’esercizio delle virtù teologali il mondo ringiovanisce. Questa verità è illustrata da uno dei racconti delle Fonti Francescane sul natale a Greccio. Così scrive Tommaso da Celano: «Celebrando il santo, il giorno della natività del Signore, la memoria della mangiatoia del bambino di Betlemme e rievocando misticamente tutti i particolari dell’ambiente nel quale nacque il bambino Gesù, molti prodigi si manifestarono per intervento divino. Fra questi vi è quello del fieno sottratto a quella mangiatoia, che divenne rimedio alle infermità di molti e che fu utile particolarmente alle partorienti in difficoltà e a tutti gli animali contagiati da epidemia»[28].

            Con la nascita di Gesù, si possono manifestare, anche nel nostro tempo, molti prodigi. La fede la speranza e della carità sono le tre leve che sostengono il mondo. Senza di esse la società decade e si intristisce. Così recita il Prefazio di Avvento: «Ora egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo regno»[29]

Come nell’episodio del Natale di Greccio, il cristiano, che si esercita nelle tre virtù teologali, dona agli altri un po’ di “fieno” (la grazia!) attinto dalla mangiatoia di Gesù. Si tratta di piccoli gesti che risanano le afflizioni del cuore e ridonano gioia alla vita: ascoltare lo sfiduciato, infondere coraggio agli smarriti di cuore, avere pazienza nelle avversità, soffrire con chi soffre, non giudicare chi ci giudica, non reagire di fronte alle calunnie, coltivare il silenzio e l’adorazione, continuare sempre a perdonare.

La speranza cristiana, radicata nella fede, raccoglie i tre elementi costitutivi della speranza umana: la tensione piena di attesa verso il futuro; la fiducia che tale futuro si realizzerà; la pazienza e la perseveranza nell’attenderlo. Manifestandosi attraverso le opere di carità, la speranza cristiana è come un vulcano che scoppia nell’intimo dell’anima, arde dentro di noi e brucia tutte le scorie nefaste dei peccati. Si genera così una forza che invita ad abbandonarsi nelle braccia di Dio, a confidare e a consegnarsi nel vortice della sua divina volontà dalla quale attendere con fiducia ogni bene e, nell’attesa della parusia, andare incontro alla manifestazione gloriosa di Cristo quando egli come Giudice chiederà conto dell’osservanza del comandamento dell’amore. 

Nel Paradiso, Dante formula in modo lapidario il significato della speranza: «Speme, diss’io, è uno attender certo / de la gloria futura»[30]. La speranza, che sboccia dalla fede, intravede la meta ultima che ci colmerà di beatitudine, mentre la carità rimane il coronamento e la trasfigurazione di ogni frammento di vita nell’amore della Trinità. Alla fine tutto scomparirà. Anche la fede e la speranza. Rimarrà solo la carità con il suo eterno e melodioso che gli angeli e i santi cantano attorno al trono di Gloria.


[1] Cfr. A. Grün, Il mistero della nascita, Queriniana 2015.

[2] Cfr. S. Zucal, Filosofia della nascita, Morcelliana, Brescia 2017; M. Morettti, M. Vergani e S. Zucal, Filosofie della nascita, Università degli Studi di Trento, Trento 2022.

[3] Cfr. G. Marcel, «Abbozzo di una fenomenologia e di una metafisica della speranza», in Id., Homo viatorProlegomeni ad una metafisica della speranza, Borla, Roma 1980, p. 45.

[4] Ib., 57.

[5] “(Initium) ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fit, Agostino, De civitate Dei, XII, cap. XX.

[6] La citazione è in S. Zucal, Filosofia della nascita, cit., pp. 323-324.

[7] M. Bizzotto, Esperienza della morte e speranza. Un dibattito sulla morte nella cultura contemporanea, Milano, Vita e Pensiero, 2000, p. 113.

[8] G. Marcel, Il mistero familiare (conferenza tenuta al l’École des hautes études fa miliales nel 1942 a Lione e a Tolosa), in Id., Homo viator, cit., p. 100.

[9] Id., «Don e liberté» in Giornale di Metafisica, II (1947), pp. 485-496, qui p. 490.

[10] Id., L’Io e l’altro (conferenza tenuta all’Istituto Superiore di Pedagogia di Lione il 13 dicembre del 1941), in Id., Homo viator, pp. 19-36, qui p. 27.

[11] Id., «Don et liberté» cit., p. 494. 

[12] G. Costanzo, La nascita, inizio di tutto. Per un’etica della relazione, Orthotes, Napoli-Salerno 2018, p. 157.

[13] Guido Gozzano nella poesia la Notte santa canta: «È nato il sovrano bambino, / è nato! Alleluia, alleluia! / La notte che già fu sì buia / risplende di un astro divino». 

[14] Prefazio dell’Avvento II/A.

[15] Atanasio, De Incarnatione, 54, 3.

[16] Leone Magno, Sermone 8 sul NataleCCL 138,139.

[17] Tommaso da Celano, Vita PrimaFonti Francescane, 469.

[18] Bonaventura, Leggenda maggioreFonti Francescane, 1186.

[19] Occorre ricordare che, nello sviluppo teologico, sant’Agostino unisce tra loro strettamente il secondo e il terzo, il corpo eucaristico e quello della Chiesa, distinguendoli dal corpo reale e storico di Gesù. Sant’Ambrogio, invece, unisce, anzi identifica, il primo e il secondo, cioè il corpo storico di Cristo e quello eucaristico, distinguendoli dal terzo, cioè dal corpo ecclesiale.

[20] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 55.

[21] Ibidem.

[22] Cfr. Sacrosanctum concilium, 7.

[23] Denzinger-Schönmetzer, 1651.

[24] Paolo VI, Mysterium fidei, 39.

[25] Sacrosanctum Concilium, 7

[26] Paolo VI, Mysterium fidei,38.

[27] Angelo Silesio, Il pellegrino cherubico, Edizioni Paline, Cinisello Balsamo, 1989, n. 61, p. 118.

[28] Tommaso da Celano, Trattato dei miracoli, Fonti Francescane, 842.

[29] Prefazio dell’Avvento I/A.

[30] Dante, Paradiso, XXV, 67-68.

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