Omelia nella Messa della solennità della Madre di Dio
Chiesa Cattedrale, Ugento 1° gennaio 2025.
Cari fratelli e sorelle,
all’inizio di questo nuovo anno riprendiamo il cammino con rinnovata fiducia e speranza. Viviamo tempi segnati da situazioni drammatiche, che impediscono di guardare al futuro con animo sereno: la tragedia della guerra, le ingiustizie sociali, le disuguaglianze, la fame, lo sfruttamento dell’essere umano e del creato. Non possiamo non prendere atto che oggi il cammino dell’umanità e della Chiesa si caratterizza come una traversata lungo il deserto; un deserto spirituale dentro città degli uomini.
Camminare senza stancarsi, come pellegrini nel deserto
A questa situazione faceva riferimento, alcuni anni or sono, papa Benedetto: «In questi decenni – egli affermava – è avanzata una «desertificazione» spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. È il vuoto che si è diffuso»[1].
Si ripresenta, così, in modi nuovi, l’esperienza dell’esodo con le sue fatiche, i suoi traguardi, le sue incertezze. Certo, si fa fatica a mettersi in cammino. Si rischia di smarrirsi, di girare a vuoto o di rimanere immobili senza entrare nel vivo della storia. Può anche farsi strada un senso di stanchezza. Tuttavia, i tempi di crisi possono rivelarsi occasioni importanti di crescita della fede e di purificazione della speranza. A partire dall’esperienza del deserto, sarà possibile riscoprire l’essenziale per vivere la gioia della fede. D’altra parte, nel nostro mondo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita.
Ci sorregge il profeta Isaia quando afferma: «Quanti sperano nel Signore […] camminano senza stancarsi» (Is 40,31). Occorre diventare pellegrini di speranza per vincere ogni stanchezza, ogni forma di crisi e di ansia. La speranza è una forza nuova che consente di perseverare e avere uno “sguardo lungo” oltre le difficoltà del presente. La speranza non è la virtù di semplici turisti o curiosi viandanti, ma di pellegrini desiderosi di intraprendere il cammino giubilare come un viaggio interiore, in vista di ritrovare in Cristo il senso e il centro della propria vita.
Benedizione, speranza e pace
Tre parole risuonano in questa liturgia all’inizio del nuovo anno sociale: benedizione, speranza e pace. Sono tre dimensioni spirituali intimamente intrecciate tra di loro. La benedizione è il contenuto della speranza e la pace è la speranza in atto. Soffermiamoci innanzitutto sulla prima parola.
Il verbo greco euloghéin significa originariamente “dire bene di, lodare, celebrare”. L’antica traduzione greca dell’Antico Testamento (la LXX) traduce con questo termine l’ebraico baràk, che non è un semplice augurio di felicità, ma significa sostanzialmente forza che opera salvezza. Da qui deriva il nome Baruch – benedetto –, profeta dell’Antico Testamento, discepolo e aiutante di Geremia nella sua missione presso gli Israeliti (cfr. Ger 32, 12-13). Sembra inoltre che la radice ebraica “brkh” sia collegata a “berek” (“ginocchio”) creando così un nesso tra la benedizione e l’inginocchiarsi. D’altra parte il verbo creare (“barà”) e il verbo benedire (“barak”) hanno la stessa radice e sono in qualche modo collegati. La benedizione è un dono in rapporto alla vita. La benedizione è un “prolungamento della creazione”.
La formula di benedizione più nota dell’Antico Testamento è quella di Aronne: «Il Signore ti benedica e ti protegga! I Signore faccia splendere il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti dia pace (Nm 6, 24-26). La benedizione è il volto benevolo di Dio rivolto verso il suo popolo. Lo sguardo divino è un atto propiziatori che dona pace all’uomo. Siamo sotto lo sguardo benedicente e amorevole di Dio. Il brano del libro dei Numeri si conclude con l’imposizione del nome di Jhwh sugli israeliti; evento che evoca il sigillo sulla fronte, segno di un’appartenenza che niente e nessuno potrà spezzare: né il tempo, né l’infedeltà, né la morte. La benedizione cristiana, radicata nella berakah ebraica, consiste appunto nel rendere grazie a Dio per i doni della sua misericordia; mediante la benedizione si risale dal dono al Donatore, cogliendo la presenza del suo amore negli innumerevoli doni puntuali di cui ogni giorno egli ci colma.
L’apostolo Paolo all’inizio della sua Lettera agli Efesini afferma: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo» (Ef 1,3). Nella frase paolina si susseguono tre diverse formulazioni: benedetto, benedire, benedizione. Lo stesso termine serve come soggetto, verbo e sostantivo, indica cioè ossia una persona, un gesto e una condizione. La benedizione è un dono incomparabile, perché solo Dio ne è in possesso. L’uomo non è fonte di benedizione, perché non è sorgente di vita. Nemmeno Abramo, il benedetto, possiede in sé la sorgente della benedizione. È solo grazie alla benedizione divina che egli diventa benedizione per il suo popolo e per tutte le nazioni. Nella benedizione sono messe a confronto la caducità dell’uomo e l’eternità divina. L’essere umano non ha stabilità ma, se Dio lo benedice, anche la radicale transitorietà umana diventa epifania dell’eternità divina. Ciò che Dio benedice resta per sempre benedetto
Gesù è il compendio delle tre dimensioni della benedizione: è il Benedetto, benedice e dona la sua benedizione. Il vangelo secondo Luca ci presenti Gesù come colui che spande intorno a sé benedizione da un estremo all’altro della sua vita: quando ha solo otto giorni, l’anziano Simeone «lo accolse tra le braccia e benedisse Dio» (Lc 2,23); e dopo la sua ascensione gli apostoli, in attesa della sua venuta gloriosa, «stavano sempre nel tempio benedicendo Dio» (Lc 24,53).
La nozione di benedizione continuò a essere legata alla protezione divina, alla preservazione dal male, al rafforzamento e alla prosperità, sia fisica che spirituale. Tuttavia, fu arricchita dall’Incarnazione del Verbo. La sua intera esistenza può essere letta come una benedizione: in tutte le sue parole e le sue azioni, in ogni suo incontro egli ha cercato sempre e solo di benedire il Padre, di restituire puntualmente a Dio i doni da lui ricevuti. Fino a quel gesto riassuntivo di tutta la sua esistenza, compiuto nell’imminenza della sua passione e morte: «Mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo”» (Mt 26,26).
Egli ha consegnato la sua benedizione agli apostoli, prime pietre vive della Chiesa nascente: «Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo» (Lc 24, 50-51). Desideroso della nostra santità, Cristo ci ha resi eredi della benedizione (cfr. 1Pt 3, 9) e ci ha lasciato la Chiesa come madre, dotandola di privilegi speciali nella distribuzione delle sue ricchezze (cfr. Rm 15, 29) attraverso i suoi ministri. Così, anche se la benedizione è pronunciata da uomini, in ultima analisi viene da Dio.
A ben vedere, la benedizione nell’Antico e nel Nuovo Testamento consta di tre movimenti è discendente, ascendente, orizzontale. Scende da Dio sull’uomo. Sale dall’uomo a Dio. Si diffonde tra uomo e uomo. Dio è la fonte e la sorgente della benedizione. Quando egli benedice, la vita fiorisce e si moltiplica. Benedire qualcuno non è un gesto magico o un atto performativo che obbliga Dio a fare ciò che l’uomo vuole, né può essere un fatto a scopo lucrativo. Quando il Signore benedice vuol dire che interviene a favore del suo popolo nei molteplici aspetti della sua vita, spirituale e materiale. La storia di Balaam insegna che nessuno può maledire ciò che Dio ha benedetto e nessuno può benedire ciò che Dio ha maledice (cfr. Nm 23-24).
La benedizione ascendente che dall’uomo si innalza a Dio non aggiunge nulla a Dio, ma lo loda e lo ringrazia riconoscendo che ogni dono viene da lui. In tal modo, egli celebra il Signore per la sua grandezza e bontà e gli chiede di essere presente nella sua vita con l’abbondanza dei suoi doni. La benedizione ascendente «è la risposta dell’uomo ai doni di Dio: noi benediciamo l’Onnipotente che per primo ci benedice e ci colma dei suoi doni»[2].
Questo duplice movimento crea il terzo: la benedizione si diffonde tra uomo e uomo e cambia il volto della società. I giorni dell’uomo e il tempo di Dio sono come in un intreccio che fa del quotidiano nascere e morire un tempo di benedizione e di vita. È stato detto che la dialettica del tempo è la dialettica delle relazioni (Lévinas). Sono proprio i nostri rapporti e, in primo luogo, il rapporto con Dio, che rendono il nostro tempo benedetto o maledetto. Tutto è grazia. Non sapremo dire con pienezza “benedetto” finché non vedremo di quali benedizioni siamo stati colmati e non sentiremo fino in fondo la verità di queste parole: «Per grazia infatti siete stati salvati» (Ef 2,5b). Le benedizioni divine sono tali che nessun evento può giungere a distruggerle. Così, possiamo guardare alla vita con la gioiosa certezza e la struggente nostalgia di essere accompagnati dalla benedizione divina.
Maria, la benedetta è la Madre di speranza
La benedizione è il contenuto della speranza, è il bene che noi speriamo. Maria, Madre di Cristo e la benedetta fra tutte le donne, è anche la madre della speranza. Generando Cristo, speranza nostra, sostiene maternamente le vie della speranza. All’interno del popolo di Dio, lei rimane la madre della speranza, coinvolta efficacemente nella storia della salvezza.
Nei tempi post-conciliari, sulla scia del signum spei, si è sviluppato un approccio al binomio Maria-speranza in chiave antropologica. In questa luce, Maria è la donna della speranza, perché in lei fede e carità raggiungono il modello luminoso di piena risposta alla chiamata del Signore. Maria è la donna generatrice di vita e, per questo, promotrice di speranza. Ella orienta e riassume lo scopo e il compimento della vita umana e cristiana. Nel Trattato della vera devozione a Maria, san Luigi Maria Grignon de Montfort prega la Vergine affinché ponga nei discepoli di Cristo le radici di tutte le virtù che lei aveva esercitato sulla terra: la fede invincibile, l’umiltà profonda, la mortificazione corporale e spirituale, l’orazione sublime, la carità ardente, la ferma speranza[3]. Come scrive il sommo poeta Dante, per noi uomini Maria è «di speranza fontana vivace»[4]. A questa fonte, alla sorgente del suo cuore immacolato, si affidano i pellegrini fiduciosi di attingere fede e consolazione, gioia e amore, sicurezza e pace. Per questo la Chiesa la invoca con queste parole: «Salve, mater misericordiae, mater spei et mater veniae, mater Dei et mater gratiae, mater plena sanctae laetitiae»[5].
La speranza è la via della pace, la pace è la via della speranza
La speranza è come la stella polare, segna l’orientamento e la direzione da intraprendere, ci dà le ali per andare avanti, perfino quando gli ostacoli sembrano insormontabili. San Giovanni della Croce canta: «In un modo misterioso / mille voli feci in uno / ché la speranza del cielo / tanto ottiene quanto spera; / solo in questo slancio sperai, / e sperando non fui deluso, / ché salii tanto in alto, tanto in alto / da raggiungere la preda»[6].
Non si ottiene la pace se non la si spera. La speranza è la via della pace e la pace è la via della speranza. Si tratta prima di tutto di credere nella possibilità della pace, nella fiducia che anche l’altro ha il nostro stesso bisogno di pace. In tutti soffia l’amore di Dio che, per ciascuno, è amore liberante, illimitato, gratuito, instancabile.
Sperare nella pace è un atteggiamento umano che contiene una tensione esistenziale. Anche un presente talvolta faticoso «può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino»[7].
Di conseguenza occorre procedere a una sorta di disarmo totale o integrale, come diceva san Giovanni XXIII nella Pacem in terris. È un’utopia, una possibilità, un dovere? È certamente un cammino da compiere a piccoli passi. Occorre innanzitutto disarmare il cuore, perché come ricorda il Concilio, gli squilibri di cui soffre il mondo in fondo derivano dal «più profondo squilibrio radicato nel cuore dell’uomo». L’uomo, infatti, «soffre in sé stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società»[8]. Il disarmo del cuore è un gesto che coinvolge tutti. A volte, basta qualcosa di semplice come «un sorriso, un gesto di amicizia, uno sguardo fraterno, un ascolto sincero, un servizio gratuito»[9]. Con questi piccoli-grandi gesti, ci avviciniamo alla meta della pace e vi arriveremo più in fretta. La pace non giunge solo con la fine della guerra, ma con l’inizio di un nuovo mondo, il mondo di un cuore purificato: un cuore che non si ferma a calcolare; non esita a riconoscersi debitore nei confronti di Dio e per questo è pronto a rimettere i debiti del prossimo; supera lo sconforto con la speranza che ogni persona è una risorsa per questo mondo.
Bisogna, inoltre, disarmare i comportamenti, convertendo la propria condotta al rispetto dell’altro e impegnandosi a evitare le azioni che feriscono la dignità del suo corpo, la sua autostima, la sua fede, la sua cultura. Tutti devono testimoniare uno stile di non violenza anche quando si tratta di far fronte alle offese e ai conflitti.
Infine, è necessario, disarmare le parole. Al disarmo del cuore e dei comportamenti, deve accompagnarsi il disarmo delle parole: san Giacomo ricorda quanti danni possa fare la lingua. IL vocabolario dei social spesso suscita e fomenta odio, rancore, spirito di vendetta. Oggi più che mai necessaria un’opera pedagogica per smilitarizzare il cuore, le parole, la condotta. Bisogna spingersi fino all’amore del nemico e al perdono per disarmare la vendetta e guarire l’odio. L’esempio dei santi e delle sante, pensiamo alla testimonianza del venerabile don Tonino Bello, ci trascina e ci sostiene.
La pace sia la nostra diletta, la nostra amica
Sarà questo l’inizio della pace. La pace, infatti, va desiderata, invocata e accolta. La preghiera è la forza mite che si oppone a ogni forma di prevaricazione. In accordo con la liturgia, ogni giorno dobbiamo chiedere al Signore: «Da pacem, Domine», «Concedici, Signore, la tua pace!».
Ascoltiamo e facciamo nostra l’intensa esortazione che sant’Agostino rivolgeva ai suoi fedeli: «È il momento questo di esortare la Carità vostra ad amare la pace secondo tutte le forze di cui il Signore vi fa dono, e a pregare il Signore per la pace. La pace sia la nostra diletta, la nostra amica; possiamo noi vivere, con essa nel cuore, in casta unione, possiamo con lei gustare un riposo pieno di fiducia, un sodalizio senza amarezze. Vi sia con essa indissolubile amicizia. Sia il suo abbraccio pieno di dolcezza. Non è difficile possedere la pace. È, al limite, più difficile lodarla. Se la vogliamo lodare, abbiamo bisogno di avere capacità che forse ci mancano; andiamo in cerca delle idee giuste, soppesiamo le frasi. Se invece la vogliamo avere, essa è lì, a nostra portata di mano e possiamo possederla senza alcuna fatica. Quelli che amano la pace vanno lodati. Quelli che la odiano non vanno provocati col rimprovero: è meglio cominciare a calmarli con l’insegnamento e con [la strategia del] silenzio. Chi ama veramente la pace ama anche i nemici della pace. Facciamo un esempio: tu che ami questa luce visibile non ti adiri con i ciechi ma li compiangi. Ti rendi conto di quale bene tu godi, di quale bene essi sono privi e ti appaiono degni di pietà. Davvero non li condanneresti, anzi, se ne avessi la possibilità, che so io, una capacità medica, o anche un farmaco utile, ti affretteresti a far qualcosa per risanarli. Così, se ami la pace, chiunque tu sia, abbi compassione di chi non ama quello che tu ami, di chi non possiede quello che possiedi tu. L’oggetto del tuo amore è di tal natura che non comporta invidia da parte di chi partecipa con te allo stesso possesso. Chi possiede la stessa pace che possiedi tu, non per questo fa diminuire il tuo possesso.
Che cosa buona è amare! Amare è già possedere. E chi non vorrebbe veder crescere ciò che ama? Se vuoi con te pochi partecipi della pace, avrai una pace ben limitata. Ma se vuoi veder crescere questo tuo possesso, aumenta il numero dei possessori. E tu, amico della pace, rifletti, e gusta per primo l’incanto della tua diletta. Ardi d’amore tu, così sarai in grado di attirare un altro allo stesso amore, in modo che egli veda ciò che tu vedi, ami ciò che tu ami, possegga ciò che tu possiedi. È come se ti parlasse la pace, la tua diletta, e ti dicesse: Amami e mi avrai sempre. Attira qui ad amarmi tutti quelli che puoi: per un amore casto, integro e permanente; attira tutti quelli che puoi. Essi mi troveranno, mi possederanno, troveranno in me la loro gioia»[10].
[1] Benedetto XVI, Omelia nella Messa per l’apertura dell’anno della fede, piazza san Pietro, giovedì, 11 ottobre 2012.
[2] Catechismo della Chiesa Cattolica, 551.
[3] Luigi Maria Grignon de Montfort, Trattato della vera devozione a Maria, n. 37.
[4] Dante Alighieri, Paradiso, XXXIII, 12.
[5] Liturgia delle Ore, Presentazione della Beata Vergine Maria (21 novembre), Ufficio delle letture, vol. IV, 1463-1464
[6] Giovanni della croce, Altre strofe su argomenti spirituali, Opere, Edizioni OCD, Roma 2012, pp. 1044-1045.
[7] Benedetto XVI, Spe salvi, 1.
[8] Gaudium et spes, 62.
[9] Francesco, Spes non confundit, 18.
[10] Agostino, Discorso, 357, 1-3.
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