Articolo del Vescovo apparso su “Nuovo Quotidiano di Puglia – Lecce”,
giovedì,10 aprile 2025, pp. 1 e 6.

Penso di conoscere, almeno in parte, i miei interlocutori. Non so se essi conoscono la mia persona. Propongo allora una sorta di “epoché” e invito, almeno per ora, a mettere tra parentesi il fatto che attualmente sono il Vescovo di Ugento- S. Maria di Leuca. Parliamo, invece, in termini “accademici”. Posseggo due lauree: una in filosofia, conseguita all’Università statale di Bari e l’altra in teologia, ottenuta alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Ho scritto uno studio su Tommaso Campanella nel quale ho anche corretto un errore di Germana Ernst, la studiosa universalmente accreditata, insieme a Luigi Firpo, come la migliore interprete della filosofia campanelliana. Ho insegnato per alcuni anni filosofia alla Facoltà Teologica Pugliese e sono stato direttore per 10 anni dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Bari. Ho un curriculum accademico di tutto rispetto (circa 50 cartelle) che è facilmente consultabile sul sito della diocesi di Ugento-S. Maria di Leuca. Anche da Vescovo non ho interrotto il mio impegno culturale, ma continuo a scrivere articoli e libri e a partecipare a convegni e seminari di studio.

Penso, pertanto, di avere tutti i requisiti per intervenire non come Vescovo, ma come “accademico” nel dibattito che si è aperto dopo i due articoli del Magnifico Rettore, Fabio Pollice, e del Direttore del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Luigi Melica. Mi limito a presentare una riflessione sul piano culturale, lasciando da parte, almeno per ora, altre considerazioni che potrei successivamente esprimere anche come Vescovo. Spero di essere ritenuto degno di discutere “alla pari”, non come una persona che ha bisogno di essere paternalisticamente “istruita”.

Fin dal 1935, il grecista Milman Parry (1902-1935) e il suo allievo Albert B. Lord (1912-1991) elaborarono una teoria secondo la quale due fattori differenziavano la tradizione orale da quella scritta: il primo consisteva nel fatto che il poeta orale non aveva alcun testo di riferimento, ma solo formule o modelli non fissi; il secondo riguardava il fattore tempo, nel senso che il poeta aveva di fronte un uditorio che non gli consentiva di fermare il canto, ma gli chiedeva di eseguirlo senza interruzioni. Secondo questi due autori, il passaggio dalla tradizione epica orale alla poesia scritta segnò una “frattura epistemica”. Questa, secondo il filosofo e antropologo Walter J. Ong (1912-2003), consistette nell’introdurre nella scrittura un nuovo stile cognitivo ossia un “pensiero argomentativo” che, procedendo per analisi e sintesi, lavorava su concetti, non su oggetti concreti.

Nella cultura orale la “parola”, quella che noi oggi siamo abituati a cercare sul dizionario, non esisteva. Ogni frase era alata. Svaniva per sempre non appena era pronunziata. L’idea di fissare i suoni in un testo scritto era del tutto inconcepibile. La memoria non funzionava come un magazzino da cui estrarre il temine più opportuno al momento giusto o come una tavoletta di cera su cui scrivere e cancellare a proprio piacimento. Era, invece, una potenza evocativa, un’invenzione irripetibile, una sorta di creazione nuova e unica nel suo genere.  

Platone (428/427 – 348/347 a.C.) visse in un momento in cui si stava compiendo questa rivoluzione culturale, segnata dalla vittoria della scrittura nei riguardi dell’oralità. Socrate aveva affidato esclusivamente alla relazione personale e dialettica il suo messaggio. In lui, l’oralità raggiunse i suoi vertici conclusivi. Platone tentò una mediazione fra le due culture. Fondando l’Accademia attorno al 387 a.C., intese promuovere non solo un luogo fisico di studio e di confronto, ma anche un laboratorio vivente di ricerca filosofica, dove trasmettere oralmente e personalmente ai discepoli idee e concetti che non potevano essere esplicitati nei suoi scritti. Era, infatti, convinto che le “cose di maggior valore” non potevano essere affidate ai rotoli di carta, ma dovevano essere consegnate e custodite nelle anime dei discepoli, opportunamente scelti.

Sul finire degli anni cinquanta del XX secolo, due studiosi tedeschi dell’Università di Tubinga, Hans Joachim Krämer (1929-2015) e Konrad Gaiser (1930-1989), elaborarono un “nuovo paradigma ermeneutico” che rivalutava in modo deciso la dottrina orale di Platone fino a farne la fondamentale chiave interpretativa di tutta la sua filosofia. A partire dagli anni Ottanta, questo orientamento interpretativo si è diffuso anche in Italia ad opera di Giovanni Reale (1931- 2014) e dei suoi allievi. A loro giudizio le “dottrine non scritte” avrebbero affiancato la stesura dei dialoghi e rappresenterebbero la formulazione migliore, più genuina e più approfondita della filosofia platonica, costituendo la via privilegiata di accesso alla giusta comprensione del suo carattere “esoterico”.

Non tutti gli studiosi condividono questa visione e portano diversi argomenti per confutarla. La questione rimane aperta. Quello che è certo e che Platone, pur privilegiando la comunicazione orale, non disdegnò (per nostra fortuna!) di scrivere i suoi dialoghi, lasciandoci un patrimonio di inestimabile valore, senza il quale la cultura occidentale sarebbe molto più povera. Anche oggi siamo di fronte a un altro passaggio epocale. Non tocca a me spiegare le novità (e i rischi?) in cui veniamo a trovarci con i nuovi mezzi di comunicazione e di formazione. Dobbiamo per questo esorcizzarli e demonizzarli? Dobbiamo contrapporre in modo surrettizio, artificioso e antistorico oralità e scrittura, comunicazione in presenza e comunicazione telematica, formazione di persona e formazione on line? Siamo tutti consapevoli che si tratta di modalità differenti sul piano del metodo e dell’efficacia: dobbiamo per questo combattere nuove guerre culturali? Perché non condividere, in modo più costruttivo e più produttivo, che è vantaggioso per tutti seguire il sapiente assioma che recita: unum facere et aliud non omittere?       

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