Nel cuore di Nardò, là dove oggi scorrono via San Giovanni, via G. Zuccaro, via Santa Lucia e via Angelo delle Masse, si erge ancora un possente muro che da oltre quattro secoli custodisce silenziosamente la memoria di un episodio tra i più significativi e discussi della storia urbana neritina.
La costruzione della cinta muraria delle Clarisse
Si tratta della cinta muraria che racchiude il monastero delle Clarisse, costruita nei primi decenni del Seicento su impulso del vescovo Girolamo de Franchis. La sua decisione di “isolare” il complesso monastico dal resto della città comportò uno sforzo economico colossale: circa 16.000 ducati, una cifra che corrisponde oggi a circa 1,7 milioni di euro. Per rendere possibile l’opera fu necessario acquistare e demolire numerose abitazioni circostanti, con un sacrificio che gravò a lungo sulle finanze del monastero.
Le critiche di Giovanni Granafei
Il vicario generale Giovanni Granafei, in una lettera del 1635 al futuro papa Alessandro VII, descriveva con toni critici l’intera operazione del suo predecessore, denunciando che: “Mons. De Franchis volse isolare il monasterio a con metterlo in isola, spendendo 16 o forse 18 millia ducati in compra di case… e questo fu grandissimo danno d’esso povero monasterio perché si levarono meglior fonti di reddito e le case comprate furono buttate à terra”.
Non solo: per finanziare l’impresa furono dirottate persino le doti di circa 24 zitelle, cioè le somme che le famiglie versavano al monastero per l’ingresso delle giovani come monache. Ogni dote valeva intorno ai 400 ducati, pari a circa 44.000 euro di oggi: un patrimonio enorme, che invece di sostenere la comunità religiosa fu assorbito dal cantiere del muro.
La clausura e il conflitto con le Clarisse
Eppure, nonostante l’imponenza della nuova cinta, rimaneva un problema: dalle parti alte del monastero, dal campanile e dai tetti, le monache potevano ancora guardare all’esterno ed essere viste dalla città. Per questo il vicario ordinò un ulteriore intervento: murare porte e finestre dei piani superiori, così da garantire una clausura totale. Fu allora che esplose il conflitto: le clarisse impedirono l’ingresso ai mastri incaricati di eseguire le modifiche, opponendosi apertamente al progetto. La loro disobbedienza spinse Granafei a reagire con fermezza, arrivando a chiudere la chiesa per tre giorni, un gesto che segnò profondamente la comunità.
L’antemuro di rinforzo
Proprio nella stessa lettera, il vicario spiega di aver fatto costruire “un muro di due canne… che serve come cortina ò antemuro d’ambe parti, à detto monasterio a ciò non si possi accedere di sotto al muro presente del monasterio”. La “canna napoletana”, misura in uso all’epoca, corrispondevava a circa 2,1 metri: l’altezza del muro era dunque di oltre 4 metri lineari, a cui si aggiungeva lo spessore notevole della struttura. L’antemuro era invece una sorta di cortina esterna di rinforzo, parallela al muro principale, che impediva ogni accesso o tentativo di scavo alla base della cinta del monastero. In altre parole, una doppia difesa: non solo protezione fisica, ma anche garanzia simbolica della separazione assoluta tra il mondo religioso e quello cittadino.
Per comprendere meglio la loro imponenza, basta confrontarle con le cinta difensiva urbana: i bastioni cinquecenteschi di Nardò, oggi in parte visibili, avevano altezze e spessori inferiori a quelli del muro delle Clarisse.
Un’eredità che resiste nei secoli
Nonostante le polemiche e le difficoltà, il muro fu completato: alto, robusto, continuo, avvolgeva come una barriera l’intero perimetro del complesso, salvaguardando la clausura e proteggendo la vita delle religiose.
Se nel Seicento l’intervento suscitò contrasti e malumori, col passare dei secoli quelle pietre sono diventate parte integrante del paesaggio urbano di Nardò, imponendo ancora oggi la loro presenza come una cornice severa e inconfondibile.
Quelle mura raccontano una storia di sacrifici, di decisioni ardite, di ricchezze consumate e di giovani vite monastiche che contribuirono, con la loro dote, alla costruzione di un’opera che cambiò per sempre il volto della città.






