Riflessione durante la celebrazione del vespro per l’accoglienza delle reliquie di san Francesco
Monastero della Trinità, Alessano, 27 novembre 2024.
Ci siamo radunati attorno alle reliquie di san Francesco per celebrare alcuni avvenimenti: la sua scelta di Cristo, il Natale di Greccio e il dono delle stimmate. Tutta la sua vita fu un canto sgorgato dal grande desiderio di vivere il Vangelo “sine glossa”, di assomigliare in tutto a Cristo e sperimentare la “perfetta letizia”. Anche il lamento funebre si trasformò in un inno di gioia. Ben si addicono a lui le parole del salmista: «Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia, perché io possa cantare senza posa. Signore, mio Dio, ti loderò per sempre» (Sal 30, 12- 13).
La vita di Francesco, un gioioso canto di lode
Francesco amava cantare. Giovane per le vie di Assisi cantava in francese o duettava con sorella cicala. Tommaso da Celano ricorda che «alla Porziuncola, su un fico posto accanto alla cella del santo, stava una cicala, che cantava frequentemente con la soavità consueta. Un giorno il padre, allargando verso di lei la mano, la invitò dolcemente: “Sorella mia cicala, vieni da me!”. Come se comprendesse, subito gli volò sulle mani, e Francesco: “Canta, sorella mia cicala, e loda con gioia il Signore tuo creatore”.
Essa obbedì senza indugio. Cominciò a cantare e non cessò fino a quando l’uomo di Dio unì la propria lode al suo canto e le ordinò di ritornare al suo posto. Qui rimase di continuo per otto giorni, come se vi fosse legata. Quando il padre scendeva dalla cella, l’accarezzava sempre con le mani e le ordinava di cantare. Ed essa era sempre pronta a obbedire al suo comando.
“Diamo orami licenza alla nostra sorella cicala – disse un giorno Francesco ai suoi compagni -. Ci ha rallegrato abbastanza fino ad ora con la sua lode. La nostra carne non deve trovare un motivo di vanagloria”. E subito, avuta la sua licenza, si allontanò e non si rivide più in quel luogo.
Davanti a questi fatti, i frati rimanevano grandemente ammirati»[1].
Il canto anche in morte
Non solo durante la vita, ma anche in prossimità della morte Francesco non smise di cantare. Sempre da Tommaso da Celano, sappiamo che percependo la morte imminente, chiese di essere condotto all’amata Porziuncola, la chiesetta che aveva riparato venti anni prima. Qui si fece spogliare della ruvida veste di sacco e deporre nudo sulla nuda terra. Voleva essere conforme in tutto a Cristo, appeso nudo sulla croce. Era la sera del 3 ottobre 1226. Aveva 45 anni. La sua vita durissima, le grandi penitenze, i lunghi digiuni avevano indebolito il suo corpo. Dal giorno nel quale il Crocifisso di san Damiano gli aveva parlato, fino sua alla morte erano passati vent’anni. Due anni prima della sua dipartita, aveva ricevuto, sul monte della Verna, il dono delle stimmate.
Adagiato sulla nuda terra, quella terra che ha lo stesso colore delle allodole, si mise a cantare per l’ultima volta il Cantico delle Creature. Anche la morte, divenuta «sora nostra morte corporale, da la quale nullo homo vivente po’ scappare», si unisce al suo canto e intona una melodiosa elegia.[2]. Alla voce del santo si unì anche il cinguettio delle allodole verso le quali aveva una particolare predilezione.
Il suo amore per il canto dell’allodola
Fra tutti gli uccelli, Francesco prediligeva “l’allodola cappellaccia” per le piume più scure che aveva sul capo tanto da assomigliare al cappuccio dei suoi frati. Diceva infatti di lei: «La sorella allodola ha il cappuccio come i religiosi, ed è umile uccello, che va volentieri in cerca di qualche granellino, e se ne trova anche tra i rifiuti, lo tira fuori e lo mangia. Volando, loda il Signore soavemente, simile ai buoni religiosi che, staccati dalle cose del mondo, vivono sempre rivolti al cielo, e la cui volontà non brama che la lode di Dio. Il vestito dell’allodola, il suo piumaggio cioè, ha il colore della terra: così offre ai religiosi l’esempio di non avere vesti eleganti e di belle tinte, ma di modesto prezzo e colore somigliante alla terra, che è l’elemento più umile»[3].
I suoi frati attestano che ogni volta che le sentiva cantare, si commuoveva fino alle lacrime. Questa la loro testimonianza: «Noi che siamo vissuti con san Francesco e che abbiamo scritto questi ricordi attestiamo di averlo sentito dire a più riprese: “Se avrò occasione di parlare con l’imperatore, lo supplicherò che per amore di Dio e per istanza mia emani un editto, al fine che nessuno catturi le sorelle allodole o faccia loro del danno. E inoltre, che tutti i podestà delle città e i signori dei castelli e dei villaggi siano tenuti ogni anno, il giorno della Natività del Signore, a incitare la gente che getti frumento e altre gramaglie sulle strade, fuori delle città e dei paesi, in modo che in un giorno tanto solenne gli uccelli, soprattutto le allodole, abbiano di che mangiare”»[4].
Il canto delle allodole il giorno della morte
L’amore di Francesco per le allodole fu da loro ricambiato proprio il giorno della sua morte. Ad un tratto, esse si unirono al suo canto e lo accompagnarono con il loro suono, fino alla fine. Amiche della luce e non del buio della sera, pur essendo già imminente la notte, le allodole vennero in grandi stormi a volare sopra il tetto della Porziuncola. Ora il loro canto non era gioioso come quando salutavano il sole al mattino. Sembrava piuttosto un lamento. Piangevano, come i frati, la morte del Poverello d’Assisi e accompagnavano con canto la sua anima mentre saliva in alto nel cielo come quando nasceva il sole.
Tommaso da Celano così descrive questo momento: «Le allodole, amiche della luce del giorno e paurose delle ombre del crepuscolo, quella sera in cui san Francesco passò dal mondo a Cristo, pur essendo già iniziato il crepuscolo, si posarono sul tetto della casa e a lungo garrirono roteando attorno. Non sappiamo se abbiano voluto a modo loro dimostrare la gioia o la mestizia, cantando. Esse cantavano un gioioso pianto e una gioia dolorosa, quasi piangessero il lutto dei figli o volessero indicare l’entrata del padre nell’eterna gloria. Le guardie della città, che attentamente custodivano quel luogo, stupite invitarono gli altri all’ammirazione»[5].
Anche san Bonaventura ricorda l’episodio nella Leggenda maggiore: «Le allodole, che sono amiche della luce e hanno paura del buio della sera, al momento del transito del santo, pur essendo già imminente la notte, vennero a grandi stormi sopra il tetto della casa e, roteando a lungo con non so quale insolito giubilo, rendevano testimonianza gioiosa e palese alla gloria del santo, che tante volte le aveva invitate a lodare Dio»[6].
Il valore simbolico dell’allodola
Ha un che di miracoloso, questo canto delle allodole all’arrivo della sera, loro che avevano paura delle ombre del crepuscolo. È un chiaro messaggio, un simbolo di grande rilevanza L’allodola ha un posto rilevante nella cultura antica. Gli antichi erano affascinati dal suo volo rapido ed ascensionale, credendola messaggera degli dei, capace di unire terra e cielo, era considerata simbolo dell’immortalità dell’anima. Nella mitologia nordica, è considerata custode dei campi e spirito del grano. Essa, infatti, ha l’abitudine di fare il nido nei campi di frumento, quando è ancora in erba[7]. Alcuni testi indiani, la indicano come esempio di saggezza e spiritualità. Nella tradizione greca, è l’emblema della dea Artemide. Per i Galli era un animale sacro augurale, carico di buoni auspici e liete notizie, mentre per i Celti era simbolo di buona fortuna e protezione. In generale l’allodola rappresenta l’esaltazione giovanile, la gioia e la voglia di vivere.
Per il suo canto melodioso, l’allodola diventa un simbolo anche per noi. Al mattino della bella stagione, essa si innalza in volo verticalmente, cantando con la sua voce cristallina per poi precipitare rapidamente, ritornare in alto e riprendere il canto. A differenza della maggior parte degli altri uccelli, che cantano solo quando si appollaiati, l’allodola canta mente vola lasciando guidare dal vento del sud, seguendo la direzione del sole che è portatore di calore, luce e vita. Il suo volo riflette il viaggio interiore. Ci incoraggia ad esplorare il nostro io più profondo e a cantare ad alta voce. Ci porta aprire le nostre ali, per sollevarci sopra la vita terrestre e percepire un orizzonte più ampio, ispirandoci un canto che renda il nostro mondo più pacifico e piacevole.
Caratteristica dell’allodola è quella di avere un piccolo ciuffo di piume erettili sul capo che mostra solo in caso di pericolo. Molto agile sul terreno, cammina e saltella abilmente, mentre in volo risulta possente e con l’andatura ondulata. Essendo un uccello gregario, l’allodola si muove in piccoli stormi fino a qualche centinaio di metri dal suolo. Il suo simbolismo è ispirato dal suo comportamento. Canta fin dai primi giorni della primavera sollevandosi quasi verticalmente sino a una altezza tale che il suo corpicino sembra quasi scomparire nel cielo. Dall’alto, lancia una cascata di suoni simili a un crescendo musicale. Poi, chiuse le ali, si lascia cadere perpendicolarmente a corpo morto fin quasi ad arrivare al suolo; infine risorge ricominciando a cantare. Per questo suo rapido volo ascensionale e discendente ispira la correlazione tra il cielo e la terra facendosi messaggera tra l’umano e il divino.
Essa però ci mette in guardia dal cadere negli abbagli della vita. Quante volte, infatti, abbiamo sentito l’espressione: “specchietto per le allodole?” Il significato riguarda un comportamento ingannevole proposto con lusinghe e prospettive allettanti. Come fanno i cacciatori quando usano uno strumento, formato da una o più palette girevoli, coperte da frammenti di specchio e mosse da un meccanismo a molla o da un motorino elettrico. Questo attrezzo, illuminato dal sole, inganna le allodole e le attira nella rete preparata dai cacciatori.
Uniamo la nostra voce al gioioso canto delle allodole
Il canto delle allodole suggellò l’intera vita di Francesco. Egli spirò povero, circondato dai suoi frati più devoti: Egidio, Masseo, Silvestro, Simplicio e Leone, la pecorella di Dio. Il pianto dei compagni rese quel momento, quasi fosse una liturgia, con la lettura di un passo del Vangelo di Giovanni (cfr. Gv 13,1) in cui Cristo si china a lavare i piedi ai suoi discepoli.
Questa sera, a distanza di secoli, sembra ripresentarsi la stessa scena. Siamo raccolti in questo monastero attorno alle sue reliquie per una veglia di preghiera. Il nostro cuore canti e voli come quello delle allodole, messaggere d’eternità. Uniamoci a queste “messaggere dell’alba” (W. Shakespeare), per continuare ad attendere con speranza il nuovo giorno, mentre siamo in prossimità del Giubileo, senza però lasciarci irretire dai molteplici inganni della vita presente.
[1] Vita seconda di Tommaso da Celano, FF, 171.
[2] «Invitava pure tutte le creature alla lode di Dio, e con certi versi, che aveva composto un tempo, le esortava all’amore divino. Perfino la morte, a tutti terribile e odiosa, esortava alla lode e, andandole incontro lieto, la invitava a essere sua ospite: “Ben venga, mia sorella morte», Vita seconda di Tommaso da Celano, FF 809.
[3] Compilazione di Assisi, FF 1560.
[4] Ivi.
[5] Trattato dei Miracoli di Tommaso da Celano, FF 855.
[6] Leggenda maggiore di san Bonaventura, FF. 1245.
[7] Come narra, fra gli altri, La Fontaine in una sua fiaba, “L’alouette e ses petits avec le maître d’un champ“.
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