Omelia nella Messa esequiale della mamma di don Paolo Solidoro
chiesa santa Chiara – Ruffano 13 giugno 2025. 

Caro don Paolo,

            mi rivolgo a te, ai tuoi fratelli e ai tuoi familiari per esprimere la più viva partecipazione della diocesi e mia personale al vostro dolore.  

La Parola di Dio che abbiamo ascoltato è come un raggio di luce che illumina l’oscurità del dolore e apre il nostro cuore alla speranza. Ci consolano le parole dell’apostolo Paolo: «Se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14,8). Chi impara a vivere per il Signore, nella fede, nella preghiera, nell’amore, impara a morire e ad offrire tutta la sua vita, quando arriva il momento dell’ultima chiamata. Morire per il Signore non è molto diverso dal vivere ogni momento per lui. Quando si muore nel Signore, si entra nella sua vita gloriosa.

Così è per tua madre, Maria Lucia. Felicemente coniugata dal 1971 con tuo padre Elio Solidoro e rimasta vedova da 6 anni, ha accompagnato con sollecita attenzione la vostra famiglia e, in particolare, si è presa cura di te e del tuo cammino formativo verso il sacerdozio. Donna di fede, ha praticato la vita cristiana nella comunità ruffanese, di cui ha goduto la stima e l’affetto. Da qualche anno, affetta da un male incurabile, ha sostenuto con cristiano abbandono alla volontà di Dio, la sofferenza e la degenza in ospedale. 

Certo la morte scioglie i legami. E quando a morire è la mamma sembra che si spezzi anche la nostra vita. Si rivela allora l’inesorabile fragilità e l’evidente precarietà dell’esistenza umana. Nella radice latina, il termine precarietà indica non solo l’intrinseca debolezza della nostra vita, ma richiama anche qualcosa che si ottiene con la preghiera e viene consesso per grazia. Precor, in latino, significa supplicare, invocare, chiedere pregando. Insomma, la nostra condizione umana è qualcosa che sussiste e sta in piedi per pura grazia e benevolenza divina. È un dono che si ottiene e si conserva in forza di una costante e incessante invocazione. Per vivere bene occorre dunque, pregare senza stancarsi (cfr. Lc 18,1; 1Tess 5,17). Ed anche la morte deve essere avvolta dalla preghiera. 

Alla preghiera si aggiungono le lacrime. Gesù stesso ha pianto per la morte dell’amico Lazzaro e, come annota sant’Agostino, lo pianse nonostante fosse sul punto di risuscitarlo. In tal modo, permette di piangere anche i nostri morti, che pure sappiamo essere destinati a risorgere alla vita eterna[1]. Preghiera e lacrime si fondono insieme: si piange mentre si prega e si prega piangendo. A una vergine, che piange la morte del fratello, il grande vescovo di Ippona scrisse: «È motivo di lagrime il fatto che non vedi più tuo fratello, non ascolti più la sua voce e quando il pensiero corre a questi particolari si riceve una fitta al cuore e ne sgorga il pianto, quasi fosse sangue. Il tuo cuore però sia in alto e i tuoi occhi saranno asciutti. Non si è spento l’amore che egli nutriva e nutre ancora per te, ma è custodito in uno scrigno prezioso ed è nascosto con Cristo nel Signore» [2].

Il distacco dalla madre è duro, ma è anche una grande consolazione consegnare la sua persona nelle mani di Dio. Ci sostiene la forza della fede nella risurrezione di Cristo. Quanto volte, nel tuo ministero sacerdotale in tanti campi di guerra e di conflitti, hai annunciato la consolante certezza che «le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà» (Sap 3,1). Ora dovrai esercitare il ministero della consolazione nei riguardi di te stesso e dei tuoi famigliari. In fondo «l’ultima consolazione è soltanto quella di avere la consolazione di consolare gli altri»[3], sapendo che noi per primi siano consolati da Dio. Il Padre, che Cristo ci ha rivelato, è «Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio. Poiché, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione» (2Cor 1,3-5).

Coltivate la fiducia che vostra madre abiterà per sempre nella casa del Padre. Questa certezza mitiga il tormento del distacco e rafforza in voi la «speranza che non delude» (Rm 5,5). Essere cristiani implica una nuova prospettiva: uno sguardo pieno di speranza. La speranza è l’ultimo regalo della mamma. Ella, infatti, continuerà ad accompagnarvi fino a quando potrete rivederla e riabbracciarla insieme a vostro padre. In Cristo risorto, la morte non è la fine, ma l’inizio di una vita nuova. Egli infatti promette: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose […]. Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine. […] io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 21, 5-7).  Sì, il Padre è il Dio delle novità e delle sorprese. Nel suo giorno, c’è felicità e gioia ed anche spazio per il pianto. Sì piangeremo, ma saranno lacrime di gioia. 

La speranza fondata sulla fede non ci lascia nell’ignoranza e nell’incertezza. Sappiamo in anticipo cosa accadrà alla fine. Alla fine, ci attende il consolante abbraccio di Dio.  Lo testimonia il salmista quando afferma: «Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia» (Sal 130, 2). Ritorna così alla mente la tenera immagine della madre che culla il suo bambino. Pensa, caro don Paolo, al tempo in cu sei stato tranquillo e sereno in braccio a tua madre. Ora le sorti si sono capovolte. Ora è tua madre che è teneramente accolta tra le tue braccia e quelle dei tuoi fratelli e dei tuoi familiari. Ma non è l’ultimo abbraccio. Ci sarà un tempo nel quale tutti sarete accolti dalle braccia materne e paterne di Dio. Allora scomparirà ogni dolore e timore. E inizierà per tutti il nuovo giorno, la domenica senza tramonto, il giorno del riposo e della gioia senza fine. Fin d’ora diciamo a tua madre: riposa serena, come un bimbo svezzato, nelle braccia dell’Eterno.      


[1] Cfr. Agostino, Epist., 263, 3.

[2] Id., Epist., 263, 2.

[3] S. Kierkegaard, Diario, VIII, pag. 26, n. 3016.

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