Caro don Vito,
in questa domenica festa dell’esaltazione della croce celebri il 34 anniversario della tua ordinazione sacerdotale. Eleva al Signore, insieme a questa tua comunità, un inno di lode e di rendimento di grazie perché non solo hai ricevuto il dono del sacerdozio, ma in questi anni ti è stata donata la grazia di farlo fruttificare a beneficio del popolo di Dio.

La croce è lo scrigno della grazia

Tutto è grazia. La croce è lo scrigno che custodisce tutta la grazia e la offre non solo come dono, ma anche come possibilità di rendere feconda la sua divina energia. Durante l’esercizio del tuo ministero pastorale hai sperimentato, ma non dovrai mai smettere di imparare, che tutto il tuo sacerdozio si riassume nel segno della croce. La croce è l’inizio e la fine, ed anche l’intero percorso.

La grande tradizione patristica insegna a vedere in ogni cosa un segno della croce di Cristo. L’arte delle catacombe e, più in generale, tutta l’arte paleocristiana, sulla scorta del pensiero di san Giustino martire, presenta la croce sotto differenti immagini: l’ancora, l’amo, l’aratro, il tridente, la nave con il suo albero maestro. Così egli scrive nella sua Prima Apologia: «Ponete mente a tutte le cose che sono al mondo e vedete se senza questa figura, si possano costruire e combinarsi. Il mare, ad esempio, non si fende se questo trofeo, sotto il nome di vela, non stia intero sulla nave, la terra non si ara senza di esso, gli zappatori e i meccanici non compiono il lavoro se non mediante arnesi fatti a questa foggia. La forma umana poi per nessun’altra caratteristica si distingue da quella degli animali irragionevoli, che per essere eretta e possedere l’estensibilità delle mani e presentare sul volto il naso, per il quale si compie la respirazione vitale, così disposto sotto la fronte da formare appunto una croce. Per bocca del profeta fu detto: “Il respiro della nostra faccia è Cristo Signore” (Lam 4,20)»[1]

Anche il tuo ministero sacerdotale trovi nella croce di Cristo la sua fonte, il suo metodo di esercizio e il contenuto del tuo annuncio. Come per l’apostolo Paolo, non avere altro vanto nella tua vita sacerdotale se non nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. Gal 6, 14).

La croce rivela la vera umanità

La croce rivela il senso e il valore dell’uomo. La Gaudium et spes al numero 22 afferma: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5,14) e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a sé stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. [… Cristo] è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime».

La Scrittura conferma questa verità. Dopo aver fatto flagellare Gesù e rivestito per dileggio con un manto scarlatto e una corona di spine, Pilato presenta lo nel Litostroto con la solenne affermazione: «Ecce homo» (Gv 19, 5). In questa scena profondamente tragica e drammatica, senza esserne pienamente consapevole, Pilato espone Cristo sofferente come simbolo dell’uomo vero e del vero uomo. Anche san Paolo instaura un parallelismo tra il primo uomo, Adamo, e Cristo fino a da affermare che Cristo è il vero Adamo, l’uomo che da sempre Dio aveva pensato. E come Adamo era un solo uomo e, nello stesso tempo, simbolo di tutto il genere umano, così Cristo è una persona storica, ma anche l’immagine della nuova umanità.

Nel Commento al Vangelo di Giovanni, sant’Agostino spiega il significato del rapporto tra Adamo e Cristo e tra il corpo di Cristo e il tempio di Gerusalemme. Il nome Adam infatti contiene il significato universale dell’umanità di Gesù. Scrive sant’Agostino: «Le quattro lettere del suo nome indicano, in greco, i quattro punti cardinali. In greco le iniziali dei quattro punti cardinali: oriente, occidente, aquilone, mezzogiorno, come in più luoghi ricorda la Sacra Scrittura, corrispondono alle lettere che compongono il nome “Adam”. In greco, di fatti, i quattro punti cardinali vengono chiamati: aνατολήδýσιςαρκτος e μεσημβρία. Mettendo questi quattro vocaboli in colonna e riunendo le loro iniziali, si ha il nome “Adam”»[2].

Lo stesso nome Adam spiega il riferimento del tempio di Gerusalemme al corpo di Cristo. «Che significa – si domanda sant’Agostino – il numero quarantasei? Vi ho già spiegato ieri che Adamo è presente in tutto il mondo, come ce lo indicano le iniziali di quattro parole greche. Scrivendo, infatti, in colonna queste quattro parole, che sono i nomi delle quattro parti del mondo: oriente, occidente, settentrione e mezzogiorno, cioè l’universo intero […] dalle loro iniziali otteniamo il nome “Adam”, Adamo. Vi troviamo anche il numero quarantasei? Sì, perché la carne di Cristo viene da Adamo. I greci scrivono i numeri servendosi delle lettere dell’alfabeto. Alla nostra lettera “a” corrisponde nella loro lingua “alfa”, che vuol dire uno. Così alla “b” corrisponde “beta”, che vuol dire due; “gamma” vuol dire tre, “delta”, quattro: a ogni lettera, insomma, fanno corrispondere un numero. La lettera “m”, che essi chiamano “my”, significa quaranta”. 

Considerate ora, le cifre relative alle lettere del nome “Adam”, e troverete il tempio costruito in quarantasei anni. In “Adam”, infatti, c’è alfa che è uno, c’è delta che è quattro, e fanno cinque; c’è un’altra volta alfa che è uno, e fanno sei; c’è infine my che è quaranta, ed eccoci a quarantasei. Questa interpretazione fu già data da altri prima di noi e a noi superiori, che scoprirono il numero quarantasei nelle iniziali di Adamo. E siccome nostro Signore Gesù Cristo prese il corpo da Adamo, ma senza ereditarne il peccato, per questo prese da lui il tempio del corpo, ma non l’iniquità che dal tempio doveva essere scacciata. I Giudei crocifissero proprio quella carne che egli ereditò da Adamo (poiché Maria discende da Adamo, e la carne del Signore deriva da Maria), ed egli avrebbe risuscitato proprio quella carne che quelli stavano per uccidere sulla croce. I Giudei distrussero il tempio che era stato costruito in quarantasei anni, e Cristo in tre giorni lo risuscitò»[3].

Come il tempio distrutto è simbolo dell’uomo frantumato dal peccato, così il corpo di Cristo morto, ridona nuova vita all’uomo ferito dal peccato. Ed è ancora la Gaudium et spes al numero 13 a spiegare: «Tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Anzi l’uomo si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato. Ma il Signore stesso è venuto a liberare l’uomo e a dargli forza, rinnovandolo nell’intimo e scacciando fuori “il principe di questo mondo” (Gv 12,31), che lo teneva schiavo del peccato».

Il sacerdote deve presentare la santa umanità di Cristo come il modello perfetto di umanità per tutti gli uomini.

La croce è la calamita del mondo

Sulla croce si realizzano le parole di Gesù: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv12,32). Nell’Antico Testamento, i “dispersi figli di Dio” sono gli esiliati in terra straniera, specialmente in Babilonia. Il Signore permette la loro dispersione fra i popoli, per i loro peccati (cfr. Dt 4,25-27; 28, 62-66), ma una volta convertiti dalla predicazione dei profeti (cfr. Dt 4,29-31; 30, 1-6), Dio li raduna dalla diaspora e li fa tornare alla loro terra. Il Tempio di Gerusalemme, ricostruito dalle rovine, è il luogo privilegiato di tale riunificazione (cfr. Ez 37, 21. 26-28; 2 Mac 1,27-29; 2,18).

Con la sua morte, Gesù raduna nell’unità i figli di Dio che erano dispersi (cfr. Gv 11,51-52). Egli raduna l’umanità dispersa in un altro Tempio, cioè la sua stessa persona, che rivela il Padre e porta gli uomini all’unione perfetta con lui (cfr. Gv 10,30; 17,21). «Donna, ecco il tuo figlio», dice Gesù a sua madre, quando dalla croce le affida il discepolo amato (cfr. Gv 19,26), il quale rappresentava tutti i suoi discepoli di ogni tempo.

Ciò che raduna gli uomini e le donne nella santa Chiesa di Dio non sono le coincidenze della storia, non è la simpatia o il bisogno di farsi coraggio a vicenda, non è la buona volontà dell’accoglienza, non è la condiscendenza di chi sta bene che concede qualche cosa a chi sta male, non è la buona educazione che tratta con rispetto gli altri. È lo Spirito che viene dal forte grido di Cristo che muore e ci rende un cuore solo e un’anima sola. Siamo la Chiesa se ci raduniamo intorno a Gesù e in nome di Gesù. Se il fondamento della nostra comunità non è il Signore Gesù, morto e risorto, i nostri tentativi di camminare insieme finiscono presto in una irrimediabile dispersione.

Il sacerdote è chiamato a pregare affinché sotto la croce «tutte le famiglie dei popoli, in pace e concordia siano felicemente riunite in un solo popolo di Dio, a gloria della santissima e indivisibile Trinità»[4].

Le dimensioni dell’amore

In un celebre passo, san Paolo afferma: «Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio (Ef 3,17-19). L’apostolo presenta «l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza» nei termini della sua «ampiezza, lunghezza, altezza, e profondità».

L’amore viene raffigurato come la croce, che si estende in tutte le dimensioni: l’ampiezza per abbracciare tutta la terra e tutti gli uomini e il mondo intero (cfr. Mt 28,18-20; Gal 3,28; 1Tim 2,4). Cirillo di Gerusalemme, vissuto nella seconda metà del IV secolo, scrive: «Dio ha steso le braccia sulla croce per abbracciare le estremità dell’Universo»[5]. Anche Lattanzio (vissuto nella stessa epoca) afferma: «Dio, nella sua sofferenza, apre le braccia e abbraccia il cerchio della terra»[6]. Vi è poi la lunghezza per includere tutti i tempi e rimanere per sempre un amore indissolubile, immutabile, un continuo presente con un inizio eterno che non avrà mai fine, un amore che va dall’eternità all’eternità (cfr. 1Cor 13,8; Ef 1,4-5; 1Pt 3,9; Rm 8,18ss.); la profondità per stringere, avvolgere e salvare il peccatore dalla sua perdizione (cfr. Gv 3,16; Rm 8,32; 2Cor5,18-21; Eb 4,15); l’altezza per orientare tutti verso l’ultimo destino: il paradiso (Lc 10,20; Gv 14,1-2; Ef 1,3; Fil3,20-21).

Caro don Vito, mentre ti rinnoviamo i nostri auguri, preghiamo il Signore perché tu possa essere annunciatore dell’amore di Cristo in tutte le sue dimensioni, rivelando così agli uomini il senso della vera umanità e contribuendo a riunire nella Chiesa, i figli di Dio dispersi nel mondo.


[1] Giustino, Prima apologia, 55.

[2] Agostino, Commento sul Vangelo di Giovanni, Omelia, 9,14.

[3] Ibidem, 10, 12.

[4] Lumen Gentium 69.

[5] Cirillo di Gerusalemme, XIII Catechesi prebattesimale, 28.

[6] Lattanzio, Divinae institutiones, 4.

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