Articolo in “Nuovo Quotidiano di Puglia – Lecce”
sabato, 7 giugno 2025, pp. 1 e 11.

Sulle pagine de “La Stampa”, Vito Mancuso ha richiamato il duplice principio della “continuità-discontinuità” e della “complexio oppositorum”. Il primo principio indica un’azione con elementi di novità e di differenza. Più complesso, invece, è il secondo principio quello della “complexio oppositorum” che Mancuso indica come «un concetto peculiare del cattolicesimo». 

Se si accetta questa formula, si deve però precisare il valore e il significato dei termini che si oppongono e chiarire se si tratta di contrari o di contradditori. Aristotele definisce come contrari i termini massimamente distanti nel medesimo genere[1]. La contrarietà è quindi una delle forme di opposizione, ma meno radicale della contraddizione, perché ammette termini intermedi o comuni. L’opposizione per contrarietà (ἐναντιότης) si distingue da quella per contraddizione (ἀντίφασις) almeno per due motivi. In primo luogo perché i contrari hanno termini intermedi o comuni, mentre i contraddittori non ne hanno. In secondo luogo, perché due contrari possono essere entrambi falsi o entrambi veri, mentre di due contraddittori uno è necessariamente vero e l’altro falso. 

In virtù di questa precisazione, preferisco parlare di principio antinomico, radicato nella dottrina cristologica che, da verità di fede, assurge a principio metafisico. Il concilio di Nicea (325 d.C.) e quello di Calcedonia (451 d.C.) stabiliscono il dogma cristologico affermando la “consustanzialità” del Verbo con il Padre (contro Ario) e l’unità delle due nature, umana e divina, nell’unica persona del Verbo (contro Eutiche). In particolare, la definizione di Calcedonia stabilisce il principio antinomico in senso cristologico in quanto afferma l’unità in Cristo delle due nature, divina e umana, «senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili». Traducendo questa verità teologica in principio metafisico, si deve affermare l’unità dei contrari non dei contraddittori. I contrari si rapportano in unità senza annullarsi e senza mescolarsi. I contraddittori affermano la coesistenza di verità differenti come uguali e compossibili.

Il principio antinomico è alla base del pensiero di illustri autori. Romano Guardini mette in guardia dal pericolo di identificare l’opposizione (Gegensatz) con la contraddizione (Widerspruch). Considerando il principio antinomico come noto da lungo tempo[2], egli afferma la consistenza oppositiva di tutto l’essere[3]. In tal modo «le coppie di opposti sono unità. Non meccanica, ma vivente. Non nel senso che l’uno venga appiattito, assimilato all’altro. Ognuno resta nella sua forma particolare […]. L’unità non consiste nell’esistenza, poniamo, giustapposta dei due opposti, nel loro essere [solo] legati fra loro. Si tratta di reale unità, talmente stretta e intima che nessuna delle parti può esistere o essere pensata senza l’altra. Ognuna coesiste, non solo, ma inesiste nell’altra. Proprio questa è l’unità vivente»[4]. Anche per Pavel Florenskij «le antinomie sono l’essenza stessa delle esistenze vitali […]. Così è nella religione: le antinomie sono elementi costitutivi della religione»[5]

Se, pertanto, si considera la “complexio oppositorum” nel senso del principio antinomico cadono tutte le affermazioni di Mancuso. Non si può, infatti, ritenere che Gesù sia Dio e non-Dio, nel senso della non consustanzialità con il Padre perché in questo caso i due termini sarebbero contradditori. Allo stesso modo, non ha alcun senso dire, con il cardinale Martini, di essere, allo stesso tempo e secondo lo stesso significato, “credente e non credente”. Si tratta, infatti, di due termini contradditori che metafisicamente non possono coesistere e si elidono a vicenda. Sul piano esistenziale si può essere credente e avere dei dubbi, ma non essere credente e contemporaneamente non-credente. Avere dei dubbi non vuol dire essere non credente. Anche gli apostoli, all’inizio, avevano dei dubbi di fronte a Cristo risorto. Non riuscivano a credere tanto grande era il mistero che si presentava davanti ai loro occhi. Poi gli occhi si sono aperti ed essi hanno creduto. E allora i dubbi sono scomparsi. Sarebbe del tutto assurdo pensare che dopo l’illuminazione della fede fossero rimasti credenti e non credenti. 

In riferimento alle verità di fede occorre ribadire che i pronunciamenti conciliari hanno un valore dogmatico vincolante e, pertanto, hanno una maggiore autorità e autorevolezza rispetto alle opinioni di alcuni teologici e scrittori ecclesiastici. Non si può dunque proporre una sorta di equiparazione. Le definizioni dogmatiche stabiliscono la “retta fede”, mentre le riflessioni teologiche sono e rimangono opinioni personali non vincolanti che si possono sostenere prima del pronunciamento dogmatico della Chiesa, dopo però devono necessariamente sottomettersi alla “regula fidei”. Infatti, Eusebio di Cesarea, che prima era simpatizzante di Ario, dopo Nicea accettò il termine “consustanziale” (ὁμοούσιος) riferendolo al Verbo.

Scambiare i contrari per contraddittori sembra essere diventato “il gioco à la page” del nostro tempo. E così la “Cattedra dei non credenti” si è trasformata nei “non credenti in Cattedra” i quali, parlando “ex Cathedra”, intendono insegnare ai credenti il “vero” contenuto di una fede che essi non sono disposti a credere. Naturalmente non si nega a nessuno la libertà di criticare il cristianesimo, la Chiesa e i cristiani. Bisogna però tener presente che i dogmi cristiani non sono favole o miti, ma verità e simboli che danno a pensare al credente e al non credente.


[1] Aristotele, De interpretatione, 14.

[2] R. Guardini, Der Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebendig-Konkreten, Matthias Grünewald, Mainz, 1925; tr. it. G. Colombi (a cura di) L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, Morcelliana, Brescia, 2007, Premessa alla seconda edizione (1955), p. 24.

[3] Ivi, p. 29.

[4] Ivi, p. 151.

[5] P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea in dodici lettere, a cura di Natalino Valentini, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2010, p. 176.

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