Omelia nella Messa della XXXIII giornata mondiale del malato
Cappella dell’ospedale, Tricase 11 febbraio 2025
Cari fratelli e sorelle,
il Giubileo 2025 invita ad essere pellegrini nella speranza. Per questo papa Francesco ha esortato a offrire segni di speranza «agli ammalati, che si trovano a casa o in ospedale» e ha auspicato che «le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono»[1].
Il gesto di aprire la porta significa considerare l’ospedale e l’hospice come “luoghi speciali” dove la speranza stabilisce la sua dimora. «La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società»[2]. La funzione delle due istituzioni acquista un particolare valore nel nostro tempo nel quale sembra che non siamo mai pronti ad accettare la malattia e ad accogliere la fragilità costitutiva della nostra condizione umana. Temiamo la vulnerabilità in tutte le sue forme, fisica, psichica e spirituale. Pertanto aprire la porta dell’ospedale e dell’hospice vuol dire fare spazio alla speranza che «non delude» (ou kataischynei). Il verbo greco, tradotto solitamente con “deludere”, è meglio reso con “non fa vergognare”. Il vanto che nasce dall’esercizio della speranza in Cristo permette a chi vive la malattia di superare ogni ostacolo attraverso l’amore (agapē), riversato da Dio nei nostri cuori[3].
La speranza è una virtù teologale. In latino virtus vuol dire “forza”, una forza che viene da Dio. Senza questa àncora radicata nell’amore di Dio tutte le altre speranze, anche le più buone e vere per l’uomo, prima o dopo, sono destinate a rivelare la loro provvisorietà e relatività. La speranza non delude perché è fondata sulla fede. La Lettera agli Ebrei lega strettamente la «immutabile professione della speranza» (Eb 10,23) alla «pienezza della fede» (Eb 10,22).
La porta dell’ospedale e dell’hospice apre alla speramza nella vita, alla novità della nascita. La presenza di un reparto di terapia intensiva neonatale (UTIN) accanto agli altri reparti testimonia che il dolore, la malattia e la morte hanno senso sempre e solo in relazione al significato della vita. E la vita è sempre un bene, un valore, un dono grande; un dono di Dio che, attraverso il dolore, la malattia e la morte, ci rende partecipi della sua Vita senza fine, della sua pienezza d’amore.
La porta dell’ospedale e dell’hospice addita la speranza come la capacità di saper attraversare il dolore e la sofferenza. Il dolore si supera solo se lo si attraversa. Occorre avere tempo: le ferite emotive non spariscono dall’oggi al domani solo perché lo vogliamo o perché qualcuno ci ricorda che dobbiamo farlo. Bisogna riconoscere il nostro dolore e accettarlo. È compito di tutti cercare il significato del dolore umano, educare al senso umano del soffrire, aiutare a vivere la fragilità, a livello personale e sociale. Attraverso l’esperienza della fragilità e della malattia possiamo imparare a camminare insieme. Il dolore può essere il grande risvegliatore dell’anima. L’uomo ha dei luoghi nel suo cuore che soltanto il dolore fa venire alla luce, penetra e porta allo scoperto. Bisogna educare non solo al senso umano del dolore, ma a trasformarlo in dono.
La porta dell’ospedale e dell’hospice rivela la missione della speranza: l’esercizio e il dovere della cura. Non si possono ridurre le cure alle sole prestazioni sanitarie, senza che siano saggiamente accompagnate da una “alleanza terapeutica” tra paziente, medico e famiglia. Non ci si si deve vergognare di avere desiderio di vicinanza e di tenerezza. È un desiderio spontaneo che nasce dalla natura sociale della persona umana. Anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, consolare e far sentire una vicinanza che mostra interesse alla persona, prima che alla sua patologia.
Ogni persona ha bisogno non solo di terapia, ma di cura evitando i due rischi: quello di un’ostinazione irragionevole nelle cure (l’accanimento, le cure sproporzionate che producono inutili sofferenze), o la desistenza (lasciare perdere, fare mancare terapie o condizionarle alla convenienza economica). Per tutti occorre che sia sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, compresa la sedazione palliativa sempre finalizzata alla restituzione della dignità della persona umana che il dolore totale deturpa. Tutti siamo fragili e vulnerabili; tutti abbiamo bisogno di quell’attenzione compassionevole che sa fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare. La condizione degli infermi è quindi un appello che interrompe l’indifferenza e frena il passo di chi avanza come se non avesse sorelle e fratelli. La malattia, che è parte della nostra esperienza umana, diventa disumana se è vissuta nell’isolamento e nell’abbandono, se non è accompagnata dalla cura della compassione e della consolazione.
La porta dell’ospedale e dell’hospice dischiude la speranza oltre la morte. Il timore della morte, nodo cruciale della esistenza umana, a cui tutti gli altri si riallacciano, è un fatto esistenziale e ineliminabile. La malattia inguaribile annuncia che stiamo per morire; anticipa il momento più importante della vita, a cui non vorremmo mai pensare perché ci riempie di paura. L’uomo non è mai preparato a vivere l’ultimo tratto della vita; è disposto a salire la montagna, anche se è irta e difficile, non a compiere il balzo finale verso la vetta. La nota psichiatra americana Elisabeth Kübler-Ross ha elencato alcune reazioni proprie dei malati inguaribili: il rifiuto, l’isolamento, il risentimento, il cercare di venire a patti con la malattia, la disperazione e, infine, anche l’accettazione[4]. Nella malattia inguaribile l’uomo è costretto a riflettere sulla propria esistenza ed è indotto a rivedere l’immagine che si era fatto di sé nel tempo della buona salute.
La porta dell’ospedale e dell’hospice è immagine della speranza come «porta aperta nel cielo» (Ap 4,1), attraverso cui si intravede la vita oltre la morte. La speranza cristiana non nasce da postulati filosofici, e non si fonda neppure sull’anelito dell’uomo verso la vita, la verità, l’infinito; il fondamento è Cristo Gesù, Figlio di Dio incarnato. Entrando nella storia e assumendo la nostra mortalità, negli non cessa di essere Dio e per questo irradia sull’umanità la luce divina e immortale. Cristo nato, morto e risorto è la risposta vera e silenziosa di Dio alle nostre domande. Non una teoria sul dolore e sulla morte, ma una vita che accoglie in sé tutti i dolori del mondo e accetta di morire, tra le angosce, come tutti gli uomini. Non afferma che il dolore è un valore. Insegna solo a non respingere Dio e la sua fedeltà d’amore all’uomo in nome dell’esperienza del dolore, della malattia e della morte. In Cristo, possiamo leggere il senso pieno della vita e della morte di ogni essere umano.
Il rito giubilare vissuto in questo ospedale non è una semplice cerimonia liturgica, ma un potente simbolo di speranza: la vita terrena non si scontra con una porta che rimane chiusa ermeticamente, ma con una porta che, nell’esperienza del dolore, si apre al futuro e lascia intravedere una luce intramontabile.
[1] Francesco, Spes non confundit, 11.
[2] Benedetto XVI, Spe salvi, 38.
[3] Il verbo «effondere, riversare» (ekkechytai = è stato riversato e i suoi effetti presenti oggi) ricorda il sangue dei sacrifici nell’Antico Testamento. Il riferimento va al sacrificio di Cristo sulla croce (cfr. Rm 5,9-10) e più precisamente all’Eucaristia (Mc 14,24: «sangue versato per voi e per tutti»). Solo attraverso l’effusione del suo amore attraverso lo Spirito si attua il cambiamento del cuore umano.
[4] Cfr. E. Kübler-Ross, La morte e il morire, Cittadella Editrice, Assisi 202021.
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