Scarica il PDF della Relazione

(Prof. Duccio Demetrio, Fondatore e direttore scientifico della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e già ordinario di Filosofia dell’educazione )

 

Grazie, buon giorno a tutti.

Grazie per questa occasione preziosissima per un punto di vista che si riconosce indubbiamente nella cultura cristiana, nella sua vastità, pur rappresentandosi, in me, un pensiero laico, un pensiero non credente.

Ancora di più, quindi, vale il mio ringraziamento e il grande interesse per questo desiderio di confrontare posizioni che talvolta, fra loro, si confondono, talaltra si fraintendono ma oggi, in modo particolare, si vanno cercando.

Questo contatto, questo rapporto con la cultura religiosa, in particolare cristiana, è un dato autobiografico che mi appartiene da sempre. Ho cercato, in alcuni miei scritti (anche autobiografici) di interrogarmi su questa mia ricerca personale, di matrice indubbiamente anche culturale. È una ricerca che mette l’accento, in modo particolare, sull’oggetto del quale mi sono occupato per tanti anni, come studioso; non solo come professore di una Università di Stato ma come individuo, come persona. Si tratta dell’oggetto e del campo per il quale mi avete anche chiamato: l’educazione; intesa, però, nella sua grande problematicità.

Nell’intervento odierno cercherò di attraversare alcuni punti critici, alcuni momenti che talvolta ci sfuggono, nel tentativo di decifrare, oggi, il senso dell’educazione. Un tema, l’oggetto dell’educazione, che è attraversato dalle posizioni più diverse, le più contrastanti, che non possono più soltanto, purtroppo, ricondurci ad un aspetto che mette al centro la nostra volontà di educare, il nostro progetto educativo.

Siamo, credo tutti, in crisi dinanzi ai fallimenti, ai disagi dell’educare. Ma in questo intervento desidero anche attraversare alcuni momenti che reputo cruciali per stabilire sempre più, in questi tempi così drammatici, un’alleanza nuova fra pensiero laico e pensiero di fede e pensiero credente. Mi muoverò all’interno anche di alcune parole; parole che debbo soprattutto agli annunci più recenti di Papa Francesco; parole che, mi sono accorto, abitavano già il mio pensiero da tempo e che, con il nuovo pontificato, si stanno, a mio parere, vivacizzando e concretizzando in alcuni gesti, in alcune prospettive, in alcuni orizzonti.

Proverò a muovermi con un certo (spero) ordine, tentando innanzitutto di chiarire il titolo di questo incontro: Dialogo e confronto con le prospettive antropologiche della cultura contemporanea.

Prima di tutto, forse, oggi dovremmo utilizzare sempre il plurale. Non possiamo più usare soltanto termini nella loro singolarità. Oggi ci sono culture contemporanee, mai una sola cultura. Ci sono le molte culture, ci sono i conflitti fra le diverse culture, culture all’interno del nostro mondo, culture che appartengono ai mondi più diversi. I conflitti stanno raggiungendo livelli assolutamente drammatici e di guardia e anche questo rapporto – quindi al plurale – con le culture, non può essere indifferente rispetto alle problematiche educative. Qui in Puglia, anche tra i colleghi universitari, c’è sempre stata una grande attenzione al discorso dell’incontro tra culture, tra lingue, tra diversità. Questo costituisce già un motivo, forse il primo che sto pronunciando, di grande comunanza, di grande interesse reciproco, per l’aiuto che possiamo fornire a chi è approdato sulle nostre terre e continua, angosciantemente, ad approdarvi. La nostra possibile interazione di idee, di pratiche, di gesti e di atti, si sperimenta anche qui! Si sperimenta soprattutto qui, venendo incontro alle solitudini, alla perdita di identità, allo sradicamento, alla morte possibile.

Occorre dunque fare uso innanzitutto del plurale.

Educare però ad una umanità nuova significa anche, a mio dire, domandarsi a quali umanità importanti, a quali umanesimi importanti, dobbiamo fare riferimento; non solo in una visione orientata al futuro, al possibile ma, in rapporto alle umanità che ci hanno anche preceduto, alle umanità che hanno lasciato messaggi e princìpi e valori che dobbiamo forse riprendere e riproporre senza timore del vecchio, talvolta anche dell’antico. In questo senso, guardare verso una umanità nuova significa non voler dimenticare. Recentemente ho letto, con grande interesse, un articolo di JeanLouis Bruguès , apparso su Vita e pensiero, rivista dell’Università Cattolica, dal titolo Il valore della memoria nel messaggio cristiano. Mi ha molto colpito. Vorrei leggerne soltanto un frammento per tentare di spiegare meglio cosa intendo per “cruciale relazione col passato e con la memoria” – non senza premettere la consapevolezza che, per i credenti, il rapporto con la memoria è un rapporto fondamentale, è un rapporto che mette in evidenza quel messaggio straordinario: agite in memoria di me! Bruguès sostiene: «È dunque evidente che l’atto del ricordare ricopre una doppia funzione. Da una parte permette di accedere all’identità, e in questo caso all’identità di Dio, ma il dato vale anche per gli essere umani. Se non conosco il mio interlocutore, gli domando di ricordarmi fatti passati, le circostanze dell’incontro precedente che mi permettano di collocarlo e identificarlo. D’altro canto l’atto del ricordare istituisce un patto di reciproca fiducia. È proprio perché Dio ha liberato il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto che il popolo può dar credito alle sue richieste, alle sue promesse. Ma questa osservazione ha valore anche per la vita sociale. È proprio perché conservo la memoria della benevolenza ricevuta da qualcuno che mi posso fidare di lui».

Oggi forse, per molti, la memoria è una moneta che non vale nulla; una moneta da spendere subito, nel presente. Credo invece che, tra un pensiero laico e non credente consapevole ed un pensiero religioso, la memoria possa costituire uno dei momenti più alti, più importanti, non tanto in una prospettiva di difesa del vecchio, di ciò che è inesorabilmente – anche per nostra fortuna – divenuto ormai obsolescente, quanto nella prospettiva di strumento che fertilizza il presente, che fertilizza il nuovo. Proprio questo è un aspetto che voglio richiamare perché indubbiamente si ricollega al tema dell’educazione. Non possiamo pretendere di educare astenendoci dal riproporre ciò che è stata la storia; la storia non soltanto nella sua vastità e complessità, ma la storia individuale, la storia personale.

In tale contesto, il grande interesse che va suscitando un argomento del quale mi occupo da una decina di anni, che è l’argomento della soggettività autobiografica, rappresenta, un interesse anche tra i più giovani, a mio parere molto incoraggiante. Perché scrittura autobiografica non significa soltanto abbandono al proprio narcisismo, al proprio edonismo. Scrittura autobiografica vuol dire avere il coraggio di guardare quale sia stata la propria storia, quali memorie portiamo dentro di noi e che cosa è bene ed è necessario non obliare, non dimenticare, per diventare quindi di nuovo protagonisti di una propria soggettività che può essere stata ferita e offesa. Perché oggi in tantissimi luoghi, servizi, momenti di cui si occupa anche, nella sua carità, la Chiesa, il motivo del racconto di se, delle proprie vicende, vede coinvolti i più fragili, i più deboli. Con il gruppo Abele, con don Luigi Ciotti, da due anni abbiamo fondato, presso la Certosa di Avigliana, nei pressi di Torino, una nuova scuola estiva dedicata all’educazione narrativa. L’educazione narrativa, della quale riprenderò ora alcuni aspetti, è un messaggio che mette al centro una volontà esplicita di aiutare a narrare, a raccontarsi, ad esprimersi, tutti coloro i quali si ritengono, e vengono ritenuti anche dal mondo, ormai incapaci di avere una loro dignità ed una loro identità. Perché la narrazione ci appartiene; ci appartiene geneticamente. Abbiamo bisogno di narrare e di narrarci, e questo lembo della narrazione può essere talvolta l’estremo momento in cui ci è dato raccogliere per rioffrire possibilità di riavvicinamento al desiderio di vita, ma possibilità anche concrete di riavvicinamento alla vita di noi stessi. In tal senso, ritengo che, tra credenti e non credenti, la riflessione su che cosa possa essere oggi l’educazione impegni innanzitutto a ritenere la stessa educazione legata soprattutto all’esistenza. L’educazione è già esistere. È questo il dramma dell’educazione; perché non tutto ciò che esiste costituisce per noi un motivo, ovviamente, di soddisfazione, di bene, di possibilità positive. Il dramma dell’educazione è che l’educazione, in una lettura filosofica di carattere fenomenologico, è un dato esistenziale. E ci è sfuggita e ci sfugge sempre più di mano. Non riusciamo sempre ad ordinarla e a progettarla. È parola quindi che si inscrive all’interno del divenire dell’uomo, della donna, dei piccoli come degli adulti, come degli anziani; un’educazione che oggi, laddove riesce a riemergere nelle sue forme positive (e, per me, forma positiva dell’educazione vuole dire soprattutto sviluppo di generatività, sviluppo di potenzialità, anche ultime, anche estreme) permette di dire che il nostro compito è, nelle forme più diverse, tentare di impedire, alla stagnazione contro il divenire, di diventare preponderante. La stagnazione ristagna il nostro pensare, il nostro rivedere aspetti che chiamano in causa l’intelligenza, che chiamano in causa l’entusiasmo. Pertanto, è proprio questa la prima riflessione da mettere al centro per una umanità nuova che, come dicevo, attinga alla memoria. Facciamo in modo che la fissità, la ripetitività, non vincano nei confronti dell’educazione perché l’educazione, dentro di se, appartenendo al flusso della vita, al flusso della ricerca di, talvolta, anche sopravvivenza, va aiutata ad esprimere tutta la sua potenzialità; l’educazione quindi come parte costitutiva della nostra umanità.

La situazione, come dicevo, è però afflitta, complicata dalla natura ambivalente dell’educazione; da una ambivalenza di cui noi per primi oggi soffriamo. Se l’educazione infatti è assunta come un dato esperienziale e non soltanto come insieme di valori, di prospettive generose, esaltanti, di prospettive quindi guidate da una idea di umanità verso la quale attendiamo, se l’educazione non è solo questo – e non può più essere solo questo – allora ci troviamo dinanzi a vissuti di natura educativa che sono generati da azioni volute, intenzionali (che sono le azioni verso le quali noi ci prodighiamo, nelle prospettive più diverse, perché vogliamo che si torni a divenire, perché desideriamo che qualcosa accada nelle vite dei singoli o nelle vite delle comunità) ma anche di fronte ad un’educazione accidentale, un’educazione che sfugge alle nostre possibilità di gestione e di controllo. Esiste un’educazione cognitiva, un’educazione del pensiero, un’educazione delle forme della mente ma anche un’educazione, da non dimenticare, che passa attraverso i rivoli, anche molto misteriosi, della affettività, dell’emozione. C’è un’educazione progettuale e un’educazione di natura casuale, che semplicemente accade. C’è un’educazione relazionale ma c’è anche un’educazione che si fonda sull’individuo, sul soggetto, sulla sua fatica, sul suo lavoro attento a far emergere soprattutto gli aspetti di natura coscienziale, legati alla consapevolezza di se, alla consapevolezza di esistere, alla consapevolezza che non c’è soltanto la solitudine ma esiste la tua comunità che ti sta accanto. Esiste un’educazione che ci arricchisce ma c’è anche una educazione che ci impoverisce; questa è l’educazione strabordante, ormai da anni, dei media. C’è un’educazione buona, che passa attraverso queste tecnologie, un’educazione che ci arricchisce, quindi che dilata, che amplia il nostro pensiero, i nostri orizzonti, e c’è un’educazione invece deprimente che impoverisce le nostre domande di emancipazione e di convivenza. C’è poi un’educazione valoriale, oggi quanto mai preziosa, da riproporre, sia nel mondo laico che nel mondo credente. Invero, il mondo credente non ha questo problema e la sua vocazione è decisamente la barra che è stata tenuta sempre dritta relativamente ad alcuni valori; è il mondo laico che oggi soffre di una educazione, spesso mancata, relativamente alla individuazione di valori e di princìpi. C’è un’educazione guidata, condotta e c’è un’educazione invece solitaria; un’educazione che riprende le tradizioni religiose dell’eremitismo, del monachesimo; un’educazione che si adempie anche nella solitudine. C’è un’educazione discorsiva, un’educazione parlata, un’educazione narrata, come prima dicevamo, ma c’è anche un’educazione che si adempie nel silenzio, che si adempie quindi nella meditazione, nel raccoglimento. Tutto questo a voi è chiaro ma non è sempre ugualmente chiaro all’interno di una cultura non credente o di una cultura laica che però, devo dire, sta riscoprendo questi motivi e questi valori. Il successo che ha riscontrato, negli ultimi anni, l’accademia del silenzio che ho fondato con alcuni amici, con alcuni studiosi, è un successo di grande interesse; una piccolissima cosa è lanciare quindi, nel mondo laico, un messaggio di avvicinamento al modo, alla maniera di essere, di vivere e di sperare di chi crede.

Riflettiamo quindi, ancora, sulla crisi di un’educazione che può sembrarci smarrita. L’educazione è smarrita quando non conta più come parola; quando l’educazione appare una parola desueta, scontata, forse fin troppo vaga. Allora succede che, alla parola educazione, si sostituisce la parola istruzione. Il peggior rischio è proprio pensare che l’istruzione possa, di per se, generare eventi di natura educativa, laddove invece, come abbiamo visto prima, gli aventi di natura educativa presentano sempre una loro complessità e si presentano anche talvolta estremamente intricati. L’educazione oggi ci appare sfinita, perché è faticoso educare; un educare che oggi (e questo è un aspetto tra i più interessanti forse della contemporaneità) non è soltanto un trasmettere informazioni, modelli, ma si traduce nella cura, e quindi anche negli atti più semplici, più modesti, più familiari, relativamente a chi è accanto a noi. Non dimentichiamo che la parola latina educare vuol dire anche curare, vuol dire anche sviluppare, quindi coinvolgimento ma vuol dire anche educare, ex-ducere…andare oltre, mostrare quindi anche orizzonti, mostrare possibilità. Domandiamoci quindi che tipo di futuro, di possibilità, oggi stiamo proponendo a chi è più coinvolto (i giovani, i ragazzi, i bambini) all’interno delle cure, delle preoccupazioni educative.

C’è poi un’educazione anche avvilita, un’educazione che viene dimenticata, che i media non trattano, non avvicinano, non considerano.

Sono dunque questi i motivi di un comune interesse e di una comune possibilità nello stare accanto gli uni agli altri per affrontare le sfide dell’educazione.

Come accennavo prima, ritengo che si debba poi individuare qualche parola comune, presente sia nel lessico laico che nel lessico della vita dei credenti. Personalmente, ho trovato queste parole nei più recenti interventi di Papa Francesco; parole coniugate all’insegna di una grande risonanza con, appunto, pensieri e riflessioni di altra natura; educare, allora, per proteggere. La parola protezione risuona più volte nei discorsi del Papa. Educare per proteggere! Educare per custodire! Educare per curare! Educare per progredire! Ma questi termini (proteggere, custodire, curare, progredire), hanno bisogno sempre di incontrarsi non soltanto con il valore transitivo del predicato, del verbo, ma col valore riflessivo. L’educazione ha bisogno di essere un’occasione di auto-riflessività. Nel momento in cui noi riflettiamo su noi stessi, sulla nostra persona, sulla nostra storia, sulla nostra vita, ci proteggiamo. Ci proteggiamo non in una visione ristretta, egocentrica, egotistica, ma proteggiamo noi stessi per proteggere. Quanto più noi siamo forti, nel carattere, nella nostra determinazione, e quindi ci auto-proteggiamo, più siamo in grado allora di comunicare valori e possibilità. Allo stesso tempo si coniuga il custodire. È parola interessante, custodire, introdotta, nella sua prima omelia, da Papa Francesco a proposito di un tema che costituisce un argomento cruciale dei lavori della Conferenza Episcopale; mi riferisco alla custodia, dice Papa Francesco, del creato: custodia del creato. Una parola che potrebbe apparire ambigua ma che, a me, non è apparsa tale. La parola custodia ci riconduce infatti a questa immagine simbolica, bellissima, importante che è l’immagine del Kepos. In greco, questa parola non significava tanto giardino – come poi venne ripreso successivamente – ma kepos era il luogo della generatività. Era il luogo dove gli animali venivano protetti, custoditi, ma non nella schiavitù; custoditi perché generassero. Allora proviamo a leggere la parola custodia come sviluppo di generatività, non solo nei confronti dell’altro, degli altri, ma nei nostri stessi confronti. Custodire noi stessi non significa proteggersi nella paura, nell’angoscia, nel terrore; significa invece guardare sempre oltre, ancora una volta, all’insegna di una generatività che trasforma la custodia nell’altro termine, usato frequentemente, che è progredire; custodire per progredire, per uscire, per incontrarsi quindi con il mondo. Si parla poi di curare, curare l’altro: formula molto interessante, questa della cura, riscoperta, come ricorderete, dagli studi di un grande antichista (mi riferisco a Pierre Hadot) il quale mette in luce, nelle sue ricerche, quanto, nell’antichità classica, la parola curare non avesse nulla a che vedere con la totale, direi, prosaicità con la quale si utilizza oggi la parola cura. La parola cura ci riporta alla cura del pensiero, ci riporta al dominio su di se, ci riporta all’esame di se, ci riporta alla coscienza di se. La cura di se, quindi, intensa in questa prospettiva, è evento tutt’altro che riconducibile alle immagini sdolcinate, sentimentali che oggi ci riconducono al motivo della cura.

Soffermiamoci su questi motivi della custodia, della cura. Ritengo di averne individuati cinque, sui quali, a mio avviso, la concordia e le possibilità di collaborazione sono vastissime: la custodia del pianeta (per chi crede, la custodia del creato), la custodia della giustizia e dei diritti dei più deboli, la custodia della memoria, la custodia della prossimità a chiunque altro, anche al tuo nemico se questo è possibile, la custodia della propria vita, della propria vita interiore, della libertà personale che non sia nociva nei confronti del tuo prossimo. Si tratta di cinque possibilità di cura, di custodia, di promozione. C’è un brano, che molto mi ha colpito, che appartiene ad una recentissima letteratura basata su conversazioni con il Patriarca Dimitrios Arhondonis e anche con Papa Francesco. In particolare, ho raccolto un frammento di un’intervista in cui si legge: «la nostra premura per il mondo non ha un presupposto politico o economico, né tantomeno è originata da un romanticismo superficiale o sentimentale; essa deriva dal nostro sforzo di onorare e nobilitare la creazione di Dio. Non possiamo più ignorare i limiti della natura, perciò il nostro umile ministero è quello di rendere le persone consapevoli dell’importanza di lasciare un’impronta più leggera, nell’interesse delle generazioni che verranno. Per questo abbiamo sempre messo in rilievo che la crisi ecologica è essenzialmente un problema spirituale». Sono questi ultimi anni che stanno offrendo, all’impegno ecologista, una nuova prospettiva, la prospettiva dell’ecologia spirituale. Una grande figura di cristiano, che probabilmente conoscete, è Pierre Rabhi franco-algerino (del quale vi invito a leggere il manifesto per una nuova terra ed una nuova ecologia). Pierre Rabhi fa il pastore, si ritira più volte nella sua terra che è riuscito, nell’arco di trent’anni, a rendere fertile, nel sud della Francia e, nella prospettiva che stiamo considerando, lascia questo messaggio straordinario, unico, spesso dimenticato: l’ecologia più attenta alla scienza, alla tecnologia, un’ecologia che talvolta ha introdotto nuovi guasti, nel tentativo di salvare la terra, è un’ecologia che si sta risvegliando a questi motivi di valore spirituale.

Aggiunge poi ancora il Patriarca: «non possiamo più rimanere indifferenti nei nostri stili di vita avidi ed egoisti. Svuotando e profanando la terra stiamo distruggendo la vita stessa». Sono queste le posizioni che porta in giro per il mondo Pierre Rabhi, raccogliendo attorno a se, a questo proposito, un movimento in crescita. Su questo argomento, dunque, non posso che spendere una parola nello stabilire una correlazione tra religione e religiosità (ne ho parlato in un mio libro recente che s’intitola La religiosità della terra. Una fede civile per la cura del mondo). Mi sento da sempre ispirato da religiosità, dalla curiosità per il mistero, da ciò che conosco, rispetto a ciò di cui dubito ma che mi affascina e che interrompe anche il mio lavoro intellettivo, intellettuale, perché mi rendo conto che, oltre un limite, non si può andare se non si accoglie la fede. La religiosità è riconducibile ad un dato universale comune dell’umanità. Mi riferisco alla religiosità della terra, alla religiosità del pianeta. È un sentimento, un’emozione di attaccamento che tutti noi abbiamo provato, per esempio, come racconto nel mio libro, nella nostra primissima infanzia. I nostri ricordi sono prevalentemente ricordi legati alla natura. C’è chi ne ha di più perché è nato in campagna; c’è chi ne ha pochissimi, come me, perché nato in città, a Milano. Ma sono ricordi che Gastone Bachelard definiva ricordi di radice, qualcosa che non puoi togliere più da te stesso. La religiosità si compie dunque nel momento in cui ci si rende conto che c’è qualcosa di misterioso in tutto ciò che abita il mondo, che abita le creature, che abita il nostro destino. La religione, invece, è fede, è testimonianza.

La religiosità della terra è una religiosità senza dogmi, senza leggi che non siano quelle osservate, sopportate, accettate. È una religiosità però che rinasce in ognuno e si spegne nell’ultimo giorno di vita, come attaccamento, come ansia di rapporto con il mondo. È una religiosità umilmente umana, primitiva e colta allo stesso tempo; né bizzarra né monotona. Il sentimento della religiosità (e la voglio chiamare anche religiosità del creato) non ha quindi nulla a che vedere con le bizzarrie di un ritorno alle cosiddette religiosità pre-cristiane o pagane. È una religiosità intesa come sentimento, come emozione. Non è un caso che ci sia allora religiosità, per esempio, nell’opera di Libera; c’è religiosità della terra nell’impegno di far rivivere terre sottratte alla mafia. È una religiosità quindi non soltanto di natura mistica o esperienziale; è una religiosità che si trasforma quindi in una custodia, in una cura del mondo e della terra per l’aiuto dei più umili.

A questo punto, procedo rapidamente e mi soffermo, con grande piacere, a leggere un passo di una grande teologa italiana – Adriana Zarri, scomparsa qualche anno fa – tratto dal suo meraviglioso libro, che molto mi ha coinvolto, L’eremo non è un guscio di lumaca, pubblicato nel 2012. In particolare, ne ho tratto un frammento molto interessante che vi propongo. Adriana Zarri, eremita, negli ultimi anni della sua vita, in Piemonte, scrive così: «E’ la pienezza della vita che ha una sosta, quasi per entrare in se stessa e contemplarsi. E abbiamo bisogno quindi di tempo di consapevolezza, di temporanea sosta nell’azione, per meditare sui motivi profondi della vita, che non è mai così fervida come quando tace e si ascolta; tempo di sprangare la porta della casa e rimanere soli col gioco fresco delle ombre, disegnate sul muro, dai mobili del nostro vivere quotidiano. E ancora abbiamo riempito le strade di rumori e le case di suoni. In ogni bar c’è una sorgente d’urli. Anche le autocorriere e i treni hanno ormai il loro altoparlante. Forse non amiamo la musica ma è certo che stiamo diventando dei maniaci del suono».

Questi motivi riconducono quindi la relazione con il creato, la relazione con la terra, a dei valori antichi; e sono questi valori antichi, non soltanto i valori nuovi, che dobbiamo accogliere e difendere.

Mi avvio dunque verso la conclusione insistendo, ancora un momento, sulla cura, sulla custodia, sulla promozione della memoria, sulla concezione della memoria come prospettiva di un bene della cultura pubblica, per la cultura pubblica, per la cultura di tutti noi; in particolare, sulla memoria come bene sociale, come forma di scambio anche tra individui diversi e tra generazioni diverse. Come avete ascoltato nella presentazione, di cui ringrazio, ho fondato, nel 1998, la Libera Università dell’autobiografia di Anghiari. Dopo due o tre anni mi cercò don Pio Zuppa, che voglio qui salutare e ringraziare per essersi fatto diretto tramite di questa occasione (la prima volta che venni a Molfetta, fu proprio in occasione della presentazione del mio libro Raccontarsi. L’autobiografia come cura di se. Oggi, quindi si tratta di un piacevole). Don Pio comprese subito (uno dei pochissimi, devo dire, del mondo cattolico) l’importanza del lavoro sulla memoria, della raccolta delle storie dei parrocchiani; manifestò il piacere, l’entusiasmo di organizzare questi momenti di narrazione, di auto-narrazione, non fini a se stessi, ma in funzione di memorie che potessero essere raccolte in un’attività – come facciamo noi da molto tempo ad Anghiari, a Milano – di volontariato in difesa della memoria. Basta pochissimo. È un volontariato che si fonda su un principio elementare: ascoltare la storia dell’altro, riscriverla e donarla all’altro. Quante volte mi è accaduto, guidando i miei studenti per esempio nelle case di cura, negli ospedali, oppure nelle residenze per anziani, di trovarmi dinanzi a donne o uomini che mi mostravano con grande orgoglio il libro della loro vita! Un libro che non avevano scritto loro ma che qualcuno, per interposta persona, con una mediazione quanto mai importante e cruciale, era riuscito a raccogliere per poi restituire. Questa non è attività narcisistica ma civile di utilizzazione della memoria. Parliamo quindi della memoria come qualità della vita in comune; quella memoria che ci consente di potenziare il nostro impegno civile ed etico. Si tratta di una memoria quindi che, come ha scritto l’amico e filosofo Salvatore Natoli, ci rammenta che la nostra vita è ricordo perché c’è il dovere di ricordare qualcosa piuttosto che qualcosa d’altro: ricordare qualcosa piuttosto che qualcosa d’altro! Questo allora è un altro necessario impegno: ricordiamo qualcosa ma dimentichiamo qualcosa d’altro. Discerniamo all’interno della memoria.

Un’altra figura cruciale della ricerca attuale è senz’altro Eugenio Borgna, il grande psichiatra che scrive: «non ci è possibile vivere in un presente de-storificato, in un presente che non si nutra di memoria palpitante, viva, tale da riconciliarci con una vita di relazione significante e tale da rimanere aperta ad attese e speranze».

Infine, consentitemi di leggere qualche riga che apparve qualche anno fa a conclusione di un mio libro; conclusione che intitolai: Per un’apologia dell’educazione. È scritto così: «l’educazione è speranza, non accetta lo scoramento totale… (ed è questa l’educazione che dobbiamo volere, che dobbiamo volere insieme)…non accetta lo scoramento totale, sa riconciliarci, talvolta, con il male di vivere. L’educazione è l’innalzarsi della coscienza oltre se stessa, nella ricerca sempre meravigliata di noi stessi. L’educazione sfida la nostra amarezza. L’educazione è sempre un annuncio, un’epifania che non vuole conoscere sempre in anticipo il suo destino. L’educazione ci apre gli occhi. L’educazione è l’incontro con uno spiraglio di possibilità l’educazione è risveglio. L’educazione è la disponibilità ad abbandonare alla deriva ciò che non c’insegna più nulla. L’educazione è accogliere la lontananza. L’educazione è accettare di rinnovarsi. L’educazione è lo stupore iniziatico per un’emozione che ancora non ci aveva visitato. L’educazione è non distrarsi mai se non per guardare, ammirati, qualcosa che ci era sempre sfuggita. L’educazione è un incanto ritrovato. L’educazione è la saggezza di comprendere quando, anche per lei, sia arrivato il momento di lasciarci, accettando, con rammarico, che debba accomiatarsi da noi».

Grazie