Il comignolo è già al suo posto. Gli stalli sono pronti. Mancano poche ore alla apertura del Conclave.
Lungi dal pensare che questo pre-Conclave sia paragonabile alle consultazioni per la scelta del Capo dello Stato, la diversità e l’universalità delle anime dei cardinali esprimono veramente la ricchezza e la globalità della Chiesa.
Il Conclave è, invece, un grande momento dello Spirito che – ora come allora – soffia sugli Apostoli e i loro successori. Tante sono le domande che vengono poste ai grandi elettori. Tante e, più o meno, evasive e fuorvianti sono le risposte che i porporati danno ai giornalisti. Tra queste anche le risposte non generiche ma anzi puntuali e profonde che il “nostro” don Marcello, card. Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi ha dato in questi giorni nel corso di interviste televisive ma anche su testate giornalistiche nazionali e locali (ieri anche sul Nuovo Quotidiano di Puglia rispondendo alle domande di Matteo Caione).
E le sue risposte si collocano certamente nel tessuto della sua formazione ecclesiologica, è stato docente di ecclesiologia nella Facoltà teologica pugliese e nella Pontificia Università Lateranense, nella sua esperienza di pastore di due diocesi, ma soprattutto nella profonda conoscenza del Magistero e dell’impegno pastorale di Papa Benedetto e di Papa Francesco, di cui è stato strettissimo collaboratore sin dagli inizi del pontificato. Ma lo scrivente può attestare che le sue radici sono altrove. Ancora più lontane: nella sua appassionata intelligenza della ecclesiologia di San Paolo VI, sicuramente il grande padre del Vaticano II e la guida sicura, ed anche sofferta, dei primi anni postconciliari. Colui che ha tratteggiato il volto della Chiesa di oggi. Tratti che sono stati ripresi dai pontefici successivi. E hanno assunto connotazioni ben definite, colorazioni diverse in riferimento al cambiamento delle “stagioni” della vita della Chiesa e della storia dell’umanità considerata nella sua globalità
Secondo quanto proposto dal “maestro”, così viene ancora chiamato don Marcello da molti dei suoi allievi-discepoli, il primo dono dello Spirito è la comunione che diventa parresìa, che si fa testimonianza. È la koinonìa che il prossimo Successore di Pietro dovrà costantemente generare, custodire, far crescere ma soprattutto testimoniare. È la comunione ecclesiale, declinata nei diversi momenti, letti come segni dei tempi, nelle diverse azioni della comunità, lette come risposte ai bisogni dell’uomo di oggi, che diventa la testimonianza più valida ma soprattutto la più credibile della possibilità di dare salvezza.
È il Corpo di Cristo, le membra unite al Capo, il Capo unito alle membra, che oggi è chiamato ad essere efficacemente significativo per la storia che l’umanità sta vivendo in questo cambiamento di epoca.
Francesco ne ha evidenziato i bisogni. Ha aperto dei processi, oggi, tra qualche giorno i signori cardinali che prima di essere tali sono vescovi, sacerdoti, diaconi, soprattutto sono battezzati, popolo di Dio, dovranno, con l’aiuto dello Spirito, discernere e indicare colui che, fedele alla Scrittura, alla Tradizione della Chiesa, ma soprattutto al sensus fidei fidelium di cui Papa Francesco ha sempre sottolineato l’importanza, avrà il compito non facile di guidare la Chiesa di Roma e la Chiesa universale. «Oggi la Chiesa e il mondo hanno bisogno soprattutto di testimonianza – è puntuale don Marcello nell’intervista a Quotidiano -, oggi c’è bisogno di testimoni, come diceva Paolo VI. Abbiamo bisogno di una Chiesa inquietante, cioè di una Chiesa che pone delle domande o, meglio, fa sì che siano poste delle domande. “Perché tu, Chiesa, stai facendo così?”, “Perché vai in un carcere per consolare l’afflitto?”, “Perché stai asciugando le lacrime, stai curando le ferite dei dimenticati, perché vai incontro all’emarginato, al povero, all’ammalato?”. Pensiamo anche alla testimonianza che su questo ci ha dato Papa Francesco. Le parole vengono dopo per chiarire, per spiegare, per rispondere, ma serve prima la testimonianza. E la testimonianza della carità deve essere provocatoria. Sulla provocazione di questa carità concreta si gioca il futuro del cristianesimo».
Non di un capo allora c’è bisogno, ma di un servo della carità e di un ministro della comunione che si fa collegialità con il collegio dei vescovi, timoniere della sinodalità che realizza e dà valore a tutto il popolo di Dio. Perché solo coniugando collegialità e sinodalità si trova, sempre per l’azione dello Spirito, quella capacità di discernimento dei segni dei tempi e dei luoghi, che ma anche la giusta fedeltà alla Parola e alla Tradizione che daranno vigore e multiforme ricchezza di significato alle tante risposte che la Chiesa è chiamata a dare alla umanità di oggi. Risposte al bisogno di fraternità che partorisce l’accoglienza delle tante povertà che generano altre e ancora altre povertà e che chiedono risposte sempre nuove, radicate nel Vangelo, coniugate con il Mistero dell’Incarnazione che sempre deve continuare.
La Chiesa in uscita non è una dottrina, la Chiesa ospedale da campo, la Chiesa delle periferie… non sono le idee peregrine di un Papa venuto “dalla fine del mondo”; ancora, non si tratta di strategia pastorale ma è la identità, il mistero stesso della Chiesa. «Lui (Papa Francesco, ndr) su questo ci ha dato testimonianza – ricorda il porporato salentino rispondendo a Caione -. Allora direi che la Chiesa estroversa, la Chiesa in uscita, ma anche una Chiesa che ha un punto d’osservazione periferico, come un principio ermeneutico da cui considerare le cose, sia il solco tracciato da Francesco. È il messaggio di Cristo e del Vangelo. E penso anche alle encicliche come Fratelli tutti e Laudato si’ e ai messaggi di fratellanza universale e cura del Creato che portano in dote. Sono messaggi che hanno implicazioni inevitabili per il futuro. L’Apostolo Giacomo dice che non possiamo dire di amare Dio che non vediamo, se non amiamo il prossimo che vediamo».
La Chiesa è missionaria. Ma il significato della missione sta nella sua presenza accanto agli uomini, accanto al loro mondo di relazioni reciproche, accanto e nel loro desiderio di costruire il futuro. È lì che la missione si fa testimonianza autentica che solo apre percorsi di vera fraternità.
E solo la fraternità genera la pace. Così si è espresso Semeraro dialogando con Domenico Agasso, del quotidiano torinese “La Stampa”: «Il dono della pace è il motivo della stessa presenza nel mondo del Figlio di Dio. Certo, oggi siamo in ansia per quella “guerra mondiale a pezzi” di cui spesso ha parlato Papa Francesco, richiamando pure i luoghi dove la violenza umana genera morte. Il grido ripetuto di Paolo VI all’Onu nel 1965: “Jamais plus la guerre” fa parte della missione della Chiesa sicché non potrà non incidere sulla “fumata bianca”». Quell’appello che risulta sempre più tragicamente attuale e a cui Papa Francesco ha cercato di fare da eco, nelle Congregazioni pre-Conclave che si stanno tenendo in questi giorni, risuona più forte che mai e certamente dovrà risuonare in maniera ancora più forte e credibile nel magistero e nell’impegno del prossimo Papa.
Oggi si fa il totonomi riguardo al futuro pontefice, addirittura si è creato il fantapapa, ma qualunque sia il nome, chiunque lo Spirito indicherà come successore di Pietro, certamente questi non potrà non essere “principe della pace”. Servo della vera pace.
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A sinistra, Semeraro nel giorno della sua creazione a cardinale. A destra, uno scatto del 2001 quando collaborando al Sinodo dei vescovi è nata l’amicizia tra l’allora vescovo di Oria e il futuro Pontefice.






