Omelia nella festa della Presentazione di Gesù al Tempio
chiesa Cattedrale – Ugento, 2 febbraio 2022
Cari consacrati,
questa festa liturgica ha una tonalità cristologica e mariana: celebra infatti la Presentazione di Gesù al Tempio di Gerusalemme e la Purificazione di Maria (Lc 2,22-39). Si potrebbe dire che è come uno specchio che riflette la luce del Natale e quella della Pasqua. La prima si caratterizza come «luce che splende nelle tenebre» (Gv 1,5) la seconda come luce che «le tenebre non hanno vinto» (Gv 1,5).
La lotta tra la luce e le tenebre
Questa espressione del prologo al Vangelo di Giovanni sembra richiamare il famoso “Rotolo della Guerra” ritrovato nel 1947 nelle grotte di Qumran, nel quale si descrive la battaglia finale di una guerra quarantennale tra i Figli della Luce e i Figli delle Tenebre, segnata dal trionfo della Luce. Nella Vulgata di san Girolamo, la frase suonava nel seguente modo: «Lux in tenebris lucet, et tenebrae eam non comprehenderunt». Nel tardo latino, il verbo comprehenderunt poteva avere anche valore di “non compresero”.
In realtà, la traduzione dell’originale verbo greco katélaben può avere tre significati: “comprendere”, “accogliere”, “vincere”. L’ambiguità può ospitare al suo interno tutta la gamma dei significati indicati, sia pure con accenti diversi. Forse è preferibile il terzo significato: «Le tenebre non l’hanno vinta» (o “sopraffatta”). Vi è uno scontro tra la luce e le tenebre, tra Cristo e il mondo. Il cristiano però conosce già l’esito della sfida. Tra l’altro, il medesimo senso affiora in un altro passo del quarto Vangelo in cui appare lo stesso verbo greco: «Camminate mentre avete la luce, perché le tenebre non vi afferrino (katalábê)» (Gv 12,35). Il versetto del prologo, pertanto, richiama la fiducia nella vittoria finale di Cristo sulle tenebre, sul mondo, sul male.
La pandemia è come cadere nelle sabbie mobili
Queste parole del Vangelo sono come un balsamo che lenisce le ferite fisiche e spirituali che imperversano in questo tempo di pandemia, perché nonostante tutte le difficoltà invitano a non scoraggiarsi, ma a continuare a sperare. La situazione attuale assomiglia a una persona che è caduta nelle sabbie mobili e vive in una sorta di “trappola mortale”. Le sabbie mobili, infatti, sono costituite da strati di sabbia, più o meno saturi di acqua, caratterizzati da una debole capacità di sostenere pesi. Generalmente sono formate da un miscuglio di argilla e acqua che promuove la loro consistenza in uno stato chimico finemente disperso, intermedio tra la soluzione e la dispersione. Si formano in zone dove l’acqua risale dal basso verso l’alto, come negli ambienti paludosi, in prossimità dei fiumi e sulle sponde di laghi o mari. A causa della loro particolare struttura fisica, le sabbie mobili danno origine al fenomeno dello “sprofondamento”. Più un soggetto si dimena all’interno delle sabbie mobili e più quest’ultime variano la propria viscosità verso uno stato liquido.
Le sabbie mobili costituiscono sicuramente un pericolo per la vita umana ed animale. Chi cade in esse vive come in mezzo a un guado, immerso in un liquido limaccioso, quasi in un limbo infinito, dove si sprofonda se non interviene qualcuno a porgere la sua mano per tirare fuori e ridonare la possibilità di un nuovo cammino. Stare nelle sabbie mobili significa vivere nell’incertezza del futuro perché sembra di non poter uscire definitivamente dalla minaccia del virus. Quando sembra di aver superato l’ostacolo, una nuova variante fa sprofondare nella difficile situazione precedente.
Camminare nelle sabbie mobili ovvero rimanere “radicati e saldi” nella fede
Non sapendo cosa accadrà nel prossimo futuro dobbiamo imparare a “camminare nelle sabbie mobili”. Certo, l’espressione è paradossale perché muoversi nelle sabbie mobili significa accrescere il pericolo di essere risucchiati e insabbiati. Gli esperti, però, dicono che chi si trova nelle sabbie mobili deve mettere in atto uno stratagemma: invece di agitarsi deve rimanere immobile, lasciandosi cadere all’indietro per ampliare la superficie a contatto con l’acqua e così favorire il galleggiamento. In altri termini, l’accorgimento consiste nel “muoversi stando fermi”.
Uscendo fuori di metafora, dobbiamo affrontare l’incertezza e lo smarrimento «radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede» (Col 2,7). L’espressione paolina contiene tre immagini molto eloquenti. La prima immagine è quella dell’albero, fermamente piantato nel suolo per mezzo delle radici, che lo rendono stabile e lo alimentano. Senza radici, sarebbe trascinato via dal vento e morirebbe. Come le radici tengono l’albero saldamente piantato nel terreno così le fondamenta danno una stabilità duratura alla casa. Rimanere saldi nella fede significa fondare e radicare la nostra vita in Cristo ritrovando ogni giorno il senso della vostra vocazione e la gioia di essere discepoli e testimoni di Cristo. «La fede infatti, lungo questo nostro pellegrinaggio, è la base da cui vengono tutte le conoscenze soprannaturali, illumina il cammino per arrivarvi ed è porta per entrarvi. È anche il criterio per misurare la sapienza donataci dall’alto, perché nessuno si stimi più di quanto è conveniente valutarsi, ma in maniera da avere, di se stessi, una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato (cfr. Rm 12, 3)»[1].
Il mondo ha bisogno della testimonianza fedele e gioiosa dei consacrati. Nell’attuale situazione di smarrimento, che pure è attraversata dal desiderio di cose autentiche e dalla domanda su Dio, per quanto possa sembrare tacitata o rimossa, i consacrati possono operare in vari modi perché gli uomini e le donne del nostro tempo aprano la porta del loro cuore al dono della fede in quanto impegnati nella catechesi e nella formazione cristiana, in vari ambiti educativi e nel servizio della carità.
La situazione è variegata. Si fa strada un diverso linguaggio, un diverso alfabeto, una diversa lettura della realtà. C’è chi è in ricerca di Dio e chi rimane ai margini, chi è più consapevole e chi conserva la domanda spirituale in modo nascosto e circoscritto. Chi avverte maggiormente il bisogno di spiritualità e per questo riflette, prega, si interroga e chi, pur dichiarandosi credente e malgrado permanga in lui un sentimento religioso, non interpreta necessariamente queste vicende alla luce di una prospettiva di fede. C’è un’area di credenti un po’ anonimi, che non staccano la spina del rapporto con la Chiesa, ma hanno un segnale della fede molto debole. Esiste, tuttavia, una domanda di senso verso la quale occorre ricalibrare il rapporto.
Porsi la domanda sul valore e sul significato della presenza dei consacrati e delle consacrate in questo tempo di pandemia impone di andare oltre il piano più semplice ed immediato del fare, per quanto esso possa essere significativo, incisivo e anche quantitativamente rilevante. Interrogarsi sul significato più vero e profondo della loro identità richiede che si privilegi la dimensione specifica della vota consacrata: l’essere comunità orante ed escatologica.
Essere comunità vuol dire essere famiglia
La testimonianza di vita comunitaria è un segno importante da coltivare con coraggio, umiltà e pazienza. La comunione si nutre del rapporto con Dio. È un riflesso della comunione delle persone divine e si costruisce nell’Eucaristia. È questa la prima condizione «perché il mondo creda» (Gv 17,21). La vita consacrata è dono di Dio ed esige allo stesso tempo una pratica quotidiana di relazione con lui. Può essere facile, oggi, scoraggiarsi di fronte alle difficoltà relazionali che sembrano così insormontabili, rifugiandosi in attivismi esasperati che, al di là delle apparenze trasmettono chiusure e unilateralità. In realtà, i segni di comunione del nostro tempo diventano via privilegiata per mostrare la novità del Vangelo e manifestare che una Chiesa è esperta in umanità.
I contesti che viviamo sono segnati spesso da problemi relazionali, solitudini, divisioni, lacerazioni, sul piano familiare e sociale; essi attendono presenze amorevoli, segni di fiducia nei rapporti umani, inviti concreti alla speranza che la comunione è possibile. Una proposta credibile del Vangelo esige una particolare cura dei processi relazionali e ha bisogno di appoggiarsi a segni di vera comunione. La carità apostolica deve essere animata dal desiderio di suscitare la fede e deve essere segno dell’amore e della grazia di Dio. Occorre integrare dinamicamente la preoccupazione evangelizzatrice e la preoccupazione educativa. Il servizio all’uomo ha sostegno e garanzia nella fedeltà a Dio e nel tener sempre vivo lo sguardo e il cuore sul Regno di Dio.
Essere comunità orante
La comunità di vita si forma innanzitutto dall’essere una comunità orante. La carità della preghiera è più urgente dell’attività di carità. Doroteo di Gaza, nel VI secolo, paragonava la vita consacrata a un cerchio con al centro un perno verso il quale convergono tanti raggi quanti sono le differenti vocazioni. Il perno è Dio in cui tutti si scoprono fratelli. Queste le sue parole: «Quando coloro che desiderano avvicinarsi a Dio si dirigono verso il centro del cerchio si avvinano gli uni con gli altri, oltre che verso Dio. Più si avvicinano a Dio e più si avvicinano gli uni agli altri. E più si avvicinano a Dio, più si avvicinano gli uni altri».
Riconoscendo il primato di Dio, si scopre la priorità dell’amore ai fratelli. Anche intellettuali laici confermano l’importanza della vita consacrata a Dio e ai fratelli. Umberto Eco diceva: «La società non potrebbe esistere se alcuni dei suoi membri non si votassero a un fine contemplativo e di ricerca». Anche la regista Liliana Cavani, dopo aver girato un documentario all’interno del monastero delle clarisse di Urbino, apprezzato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2021 ha affermato: «Le claustrali sono come gli astronauti su un satellite; a vederle pregare sembra che l’universo giri intorno a loro».
Occorre pregare per tutti e per ogni sorta di malattia e di infermità fisica e spirituale. Soprattutto occorre pregare per la Chiesa che soffre ed è perseguita in molti parti del mondo. Oggi molti cristiani subiscono il martirio nelle società a maggioranza islamica e induista o sono derisi in Occidente. Si calcola che, nel 2021, è cresciuta ancora la persecuzione anticristiana nel mondo: sono oltre trecentosessanta milioni i cristiani che sperimentano un livello di persecuzione e discriminazione molto alto a causa della propria fede[2]. Oltre alle violenze, c’è da tenere conto delle vessazioni quotidiane subite dalle comunità cristiane in forme velate e palesi: discriminazioni sul lavoro, pressioni per rinunciare alla propria fede, diversità di trattamento per avere aiuti e medicine, controlli centralizzati sul modello cinese.
Essere comunità escatologica
La comunità orante, se è veramente tale, è anche necessariamente e intrinsecamente una comunità escatologica. I consacrati sono testimoni dell’orizzonte ultraterreno e del senso definitivo e dell’orientamento dell’esistenza umana alle realtà ultime e definitive. In quanto totalmente consacrata al Signore, nell’esercizio di povertà, castità e obbedienza, la vita consacrata è il segno di un mondo futuro che relativizza ogni bene di questo mondo. Così si può dire che mentre la famiglia è custode della sacralità della vita nella sua origine, la vita consacrata, in quanto chiamata alla conformazione a Cristo, è custode del senso ultimo, pieno e radicale della vita.
Cari consacrati, il mondo ha bisogno della vostra testimonianza fedele e gioiosa. La richiedono tante situazioni di smarrimento, che pure sono attraversate anche dal desiderio di cose autentiche e vere e, ancor più, da una domanda su Dio, per quanto possa sembrare tacitata o rimossa, è sincera e autentica. Sia la vostra vita di comunità, di preghiera e di apertura al futuro una testimonianza credibile e una riposta alle sfide del nostro tempo.
[1] Bonaventura, Breviloquio, Prologo, Opera omnia 5, 201-202.
[2] Il rapporto è a cura dell’annuale studio World watch list 2022 di Porte Aperte, che ha considerato le situazioni dei vari stati nell’arco di un anno a partire dal primo ottobre 2020. Le uccisioni di cristiani per motivi legati alla fede sono aumentate di oltre il 23% rispetto al rapporto precedente, salendo da 4.761 casi a 5.898, e si concentrano soprattutto nell’Africa sub-sahariana, con la Nigeria epicentro dei massacri (4.650). Il numero di chiese attaccate, 5.110, è cresciuto del 14%. Le detenzioni e gli arresti sono arrivati a 6.175 casi, il 44%, di cui 1.315 nella sola India. Al primo posto della classifica degli stati più pericolosi per i cristiani c’è l’Afghanistan. Segue la Corea del Nord. Poi, ci sono la Somalia, la Libia e lo Yemen, a rimarcare il fatto che l’intolleranza anticristiana è fortemente radicata nei paesi dove l‘Islam è legato a una società tribale ed estremista. La lista prosegue con l’Eritrea, la Nigeria, il Pakistan. Infine, l’Iran e l’India, sempre più influenzata dall’ideologia nazionalista induista.
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